Il Festival d’Autunno chiude con la poesia di Capossela (FOTO E VIDEO)

E' la stagione delle fiabe, ma anche quella delle grandi solitudini , del gelo e dei fiammiferi  LE FOTO

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    di Domenico Iozzo

     

    “La fine d’anno è la strettoia in cui passano tutti i fantasmi, gli spettri e le ombre generate dal fuoco del racconto. Le ombre ataviche delle ritualità dell’inverno si confondono con quelle personali.  E’ la stagione delle fiabe, ma anche quella delle grandi solitudini, del gelo e dei fiammiferi”. Vinicio Capossela racconta così l’idea che ha preso la forma di spettacolo nella straordinaria serata di chiusura del Festival d’Autunno ieri al Teatro Politeama. Ad aprirla è stata il direttore artistico Antonietta Santacroce, ringraziando tutti coloro che hanno contribuito al successo di un’altra edizione e dedicando un pensiero commosso al cavaliere Giovanni Colosimo, autentico mecenate e uomo di cultura che ha sostenuto il festival fin dai suoi primi passi. Il sipario si apre, quindi, svelando agli spettatori uno scenario caratterizzato da ombre, nebbie e riflessi che scandiranno tutta la prima parte del concerto.

    E’ il filo conduttore dell’inverno e delle canzoni della cupa quello scelto da Capossela per raccontare e raccontarsi al pubblico nell’abituale maniera, nostalgica, poetica, dalla forte matrice letteraria. Non ci sono orpelli scenografici, ma l’immaginario legato alla sua canzone riemerge attraverso le forme e le ombre proiettate sullo sfondo del palco, tra lupi, balene giganti e figure mitologiche. L’epica folk lascia spazio alla drammatica attualità, quando il cantautore introduce la sua “S. S. dei naufragati” con una riflessione sulle migliaia di vite spezzate dei migranti nel profondo del Mediterraneo. Il mare, come luogo di morte, si trasforma poi in divertente suggestione al ritmo di “Polpo d’amore” e “Pryntyl” dove si parla e si canta il sirenese. Il programma cambia forma durante la serata per attingere alle ballate del repertorio meno recente di Capossela con “Dall’altra parte della sera” e “Orfani ora”, suggellando il momento in cui per la prima volta, dopo circa un’ora, scompare il velo che separa i musicisti dalla platea.

    La malinconia lascia spazio, allora, all’incantevole poesia de “Il paradiso dei calzini” e “I pianoforti di Libecca”, tributo ad un’epoca, ormai sommersa dalla polvere e dai ricordi, da cui riemerge il volto iconico di Maria Callas e le note della sua “Casta diva” ispirate dal sempre originale utilizzo del theremin. Il protagonista sul palco fa felici i suoi fans di vecchia data riproponendo successi come “Con una rosa” e “Maraja”. Le ombre lasciano lo spazio alle luci in una scenografia che cambia pelle in tempo reale per fare da cornice alla festa e all’incursione nelle sonorità popolari con la pizzica di “Pettarossa” e la contagiosa “Nachecici”, condita da una coda ironica che fa il verso a Bob Dylan, per ridere tutti insieme con il gusto della semplicità.

    Profondamente ancorato alla terra e ai culti del Sud, “Il ballo di San Vito” segna l’apparizione sul palco dei krampus, le maschere tipiche dei diavoli, e l’ingresso salvifico di San Nicola nelle sue più riconosciute vesti. Qui Capossela sorprende ancora, citando il patrono di Catanzaro e altri due simboli della città come il vento e il morzello. L’artista si congeda con la sua “benedizione” speciale, la splendida “Ovunque proteggi”, prima di un bis fuori dagli schemi. Sul palco viene invitata a salire una spettatrice a cui, su richiesta, Capossella esegue un cavallo di battaglia dei primi anni di carriera, “Scivola vai via”. L’ultima dedica, però, spetta a lui che parla alla Calabria, al suo territorio tutto da esplorare, intonando i versi di “Camminante”. Un inno alla ricerca della felicità e del sogno, perché “non si può perdere quello che mai in fondo si è tenuto”.

     

     

     

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