Quel primo processo di mafia celebrato nella palestra della scuola Aldisio foto

La fiction su Boris Giuliano riporta alla luce un pezzo di storia catanzarese. Mentre su quei fatti Gemelli prepara il suo quindicesimo libro

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    di GIULIA ZAMPINA

    Da Catanzaro è passata, nel bene o nel male , sempre, la storia di questo Paese.  Unica sede di Corte d’appello per molti anni, unica sede della facoltà di medicina, prima città della Calabria ad avere una squadra  a militare in serie A. Nel bene e nel male appunto, il capoluogo di Regione è stato teatro di eventi che in qualche modo hanno condizionato il corso della storia di questo Paese, oltre ad aver dato i natali ed ospitato personaggi illustri.

    Ma l’esercizio della memoria, invece di diventare un motivo di orgoglio, invece di creare un sano senso di appartenenza, spesso è diventato  inutile nostalgia.

    E così, nei giorni in cui si rincorrono le manifestazioni in ricordo della strage di Capaci, una fiction Rai accende un campanello e ai più attenti fa notare che, prima di quel tragico 23 maggio, Catanzaro per molto e molto tempo avrebbe potuto parlare di legalità e ricordare un processo, il primo di mafia, celebrato nel capoluogo proprio per provare a dare giustizia ad altre forze dell’ordine morte in un attentato mafioso.

    Un processo che ai tempi ebbe un risultato forse fallimentare dal punto di vista giudiziario, ma dal quale si ripartì di certo proprio per definire ancor meglio i contorni di quel fenomeno chiamato Mafia.

    In qualche stanza polverosa della Procura catanzarese è ancora conservato un documento autografo di don Tano Badalamenti. Proprio quel boss che dal processo di Catanzaro uscì assolto, salvo poi passare alla storia come il più pericoloso dei criminali.

    Anche se, ben prima della fiction dedicata a Boris Giuliano, il capo della squadra mobile di Palermo ucciso nel 1979, Bruno Gemelli, giornalista catanzarese, sulle cronache di quel processo aveva già iniziato a lavorarci proprio dare alle stampe il suo quindicesimo libro che avrà come tema il “processo dei 117”.

    Per altro, nel cast della fiction Rai diretta da Ricky Tognazzi, c’è anche un catanzarese, Diego Verdegiglio.

    LA STORIA

    Erano gli anni ’60 e in Sicilia era scoppiata la prima guerra di mafia. Durante la notte del 30 giugno 1963 a Villabate un’automobile imbottita di esplosivo che era stata abbandonata davanti all’autorimessa del mafioso Giovanni Di Peri esplode ed uccide il custode Pietro Cannizzaro e il fornaio Giuseppe Tesauro. Alle ore 16 dello stesso giorno un’Alfa Romeo Giulietta imbottita di esplosivo, abbandonata nei pressi della villa dei Greco a Ciaculli, esplode ed uccide sette uomini delle forze dell’ordine che erano arrivati sul posto per disinnescare la bomba; la polizia, basandosi soprattutto su fonti confidenziali e ricostruzioni indiziarie, attribuì le due autobombe a Pietro Torretta, Michele Cavataio, Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti ed altri mafiosi del loro gruppo

    La notte del 2 luglio 1963 Villabate e Ciaculli vennero circondate dalla polizia: furono arrestate quaranta persone sospette e venne sequestrata un’ingente quantità di armi. Nei mesi successivi furono arrestate 2000 persone sospette di legami con Cosa Nostra e la prima Commissione Parlamentare Antimafia iniziò i suoi lavori.

    IL PROCESSO DI CATANZARO

    I protagonisti della prima guerra di mafia vennero giudicati in un processo svoltosi a Catanzaro nel 1968 (il famoso “processo dei 117”); in dicembre venne pronunciata la sentenza ma solo alcuni mafiosi ebbero condanne pesanti: Pietro Torretta venne condannato a 27 anni di carcere per omicidio; Angelo La Barbera ebbe 22 anni e sei mesi; Salvatore Greco e Tommaso Buscetta (entrambi giudicati in contumacia) furono condannati a dieci anni di carcere ciascuno. Il resto degli imputati, tra cui Tano Badalementi, furono assolti per insufficienza di prove o condannati a pene brevi per il reato di associazione a delinquere e, siccome avevano aspettato il processo in stato di detenzione, furono rilasciati immediatamente. Il processo si celebrò nella palestra della scuola Aldisio, dove fu costruita una vera e propria gabbia

    QUANDO LA MAFIA NON ERA ANCORA ASSOCIAZIONE MAFIOSA…LE MOTIVAZIONI

    Durante il dibattimento del processo di Catanzaro, il cui pubblico ministero era il magistrato Bruno Sgromo, emersero rapporti economici tra Badalamenti, Domenico Coppola, Filippo Rimi, Giacomo Riina. Tali rapporti, però, vennero valutati dai giudici catanzaresi alla stregua di rapporti d’affari e non come indizi di cointeressenze che nulla hanno a che fare con commerci quali quelli ufficialmente dichiarati.

    «All’epoca dei fatti per cui è processo, – si legge nelle motivazioni della sentenza –  Gaetano Badalamenti risulta impegnato nell’amministrazione dei beni propri (industria armentizia), delle sorelle e del fratello Emanuele residente in America». La conclusione dei giudici è chiara: «Non può pertanto del tutto escludersi che rapporti economici (quali risultano attraverso i menzionati assegni) siano stati mantenuti dal Badalamenti con altri imputati, quali Rimi Filippo, Coppola Domenico (entrambi commercianti grossisti di agrumi, vini ed animali) nonché col Di Pisa (che curava il commercio di vino per l’esercizio intestato a sua madre) in conseguenza della comune loro attività commerciale» .

    Insomma, sono tutti commercianti, più o meno agiati, che hanno tra loro normali rapporti relativi ai loro commerci.

    COME BADALAMENTI SI RIVOLGEVA AI GIUDICI DI CATANZARO

    Tra i documenti del processo, si trova anche uno scritto autografo del boss Badalamenti, indirizzato ai giudici. E’ stato Salvo Palazzolo nel suo libro “I pezzi Mancanti” a riportarne alcuni stralci: “Prego la Corte – scriveva Badalamenti ai giudici – non volere interpretare la mia assenza come mancato ossequio alla legge. Sono quasi in fin di vita, roso da mali incurabili che si sono sempre più aggravati (dimostrati dalla documentazione allegata in atti). Le cure continue cui mi sono sottoposto e che mi hanno tenuto sia pure con tenue filo alla vita, non mi sarebbero certo potuti praticare in carcere. Confida ciò all’umana comprensione dei giudici per essere scusata. Anche le sofferenze dello innocente. Costretto a vivere nascosto non sono inferiore a quelle procurate dal carcere. Spero che dopo tanti dolori sarà riconosciuta la mia innoccenza (così come scritto nel testo ndr).Io infatti, ho vissuto di lavoro e sono del tutto innoccente (così come scritto nel testo ndr) a quanto mi si addebita in quanto mai ho avuto rapporti illeciti con chicchessia e tanto meno con persone che figurano imputate nell’attuale procedimento (…)

     

    I PUNTI OSCURI DI QUELLA SENTENZA

    Nelle motivazioni della sentenza, emerge come i giudici non siano riusciti ad interpretare al meglio l’essenza mafiosa. Un risultato che replicava quello ottenuto nel 1901 dopo l’indagine condotta dal prefetto Sangiorgi, ma manca in questa circostanza, l’attenuante di una magistratura fortemente collusa. La mafia non viene inquadrata come un’unica struttura, ma come un insieme di molte “associazioni indipendenti“. Manca l’individuazione di regole e metodi comuni a tutti gli affiliati, e riemergono chiavi di lettura trite e ritrite come quella che definisce Cosa Nostra “un atteggiamento psicologico o la tipica espressione di uno sconfinato individualismo” , quale sfondo della evidente delinquenza collettiva. Si accetta ancora che la sostanza mafiosa sia ancora “una idea e non una cosa“.

    Alla luce di questa nuova sconfitta della giustizia, determinata più dall’inadeguatezza che dalla immoralità, il contributo che fornirà tra diversi anni Tommaso Buscetta diventerà di enorme importanza. Attraverso le sue parole il giudice Falcone e l’intero Paese, acquisiranno quella che sarà la moderna interpretazione della struttura mafiosa. Senza le confessioni dei pentiti o le testimonianze dirette, è risultato impossibile avere la percezione di una tale ramificazione convergente ad un unico vertice.

    Nel processo di Catanzaro come tante altre volte in passato, tanti testimoni nel tempo ritrattarono, attanagliati dalla paura per vendette e ritorsioni, su se stessi, familiari, o attività economiche. Vengono così a mancare gli strumenti per nutrire la giuria con materiale probatorio inconfutabile, e cade nel vuoto la ricostruzione della rete di collegamento mafiosa nel territorio.

     

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