Open access in campo medico, tra etica e tutela dei dati

Dibattito all'Università Magna Graecia

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    Per comprendere appieno la portata dell’Open Access sul piano sociale, prima ancora che scientifico, basta citare l’episodio che ha visto protagonista qualche anno fa Ilaria Capua, virologa italiana di chiara fama internazionale. Quando la scienziata scoprì un ceppo africano di influenza viaria, decise di non depositarlo nella grande banca dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità perché l’accesso a quel date base era protetto da una password detenuta da pochi Paesi al mondo. Il ceppo venne inserito in un data base “aperto” cosicché tutti i ricercatori, a cominciare proprio da quelli africani, poterono beneficiare dei risultati di quella scoperta per continuare l’opera di contrasto alla malattia su scala planetaria. Il valore etico della scelta di Ilaria Capua è facilmente intuibile e fa capire perché l’Open Access è un tema tutt’altro che circoscritto ai soli addetti ai lavori.

    Di accesso aperto si è discusso all’università Magna Grecia, su iniziativa dell’European Documentation Centre, istituito presso lo stesso ateneo del capoluogo e del Centro di Documentazione di Storia della Medicina Cassiodoro. Un momento di approfondimento destinato prevalentemente ai dottorandi di ricerca ma che ha messo in evidenza, come si diceva, tutta la portata sociale del tema. A fare gli onori di casa, il professore Aldo Focà che ha introdotto i lavori; a tenere le relazioni sui diversi aspetti dell’Open Access, tre esperti dell’Università di Messina: Benedetta Alosi, Nunzio Femminò e Giuseppe Bonanno; conclusioni affidate al professore Stefano Alcaro.

    Nel corso del convegno, è emerso che di accesso aperto si ragiona ormai da qualche anno ma non senza difficoltà sul piano dei risultati concreti, anche per via del vero e proprio monopolio che le riviste scientifiche a pagamento sono riuscite a mettere in piedi. Chi sostiene l’accesso aperto parte da una premessa semplice: se la ricerca è finanziata con fondi pubblici, è giusto che i suoi risultati siano accessibili a tutti indistintamente, senza che vi sia un ritorno economico per chi pubblica ma solo visibilità e prestigio. L’unione Europea, in prima fila tra i sostenitori di questa tesi, si è spesa molto, producendo raccomandazioni e linee di indirizzo destinate agli Stati membri e arrivando addirittura a porre l’accessibilità aperta ai dati come condizione per ottenere finanziamenti comunitari, come quelli del programma “Horizon 2020”. Insomma è importante che si diffonda la cultura dell’Open Access perché una scienza accessibile senza condizioni va avanti con più rapidità, in maniera più estesa e a vantaggio dell’intera collettività.

    Sotto questo aspetto, la realtà oggi è ancora a macchia di leopardo. Vi sono paesi, come l’Olanda o la Norvegia, in cui il processo di liberalizzazione della produzione scientifica è assai avanzato e altri, come l’Italia, che arrancano. Il nostro Paese si è dotato di una legge in materia ma si attendono ancora i decreti attuativi. Più sensibile invece il mondo accademico, con la Conferenza dei rettori che già nel 2004 firmò la Dichiarazione di Messina, che fece seguito a quella di Berlino, con cui l’Italia entrò nel contesto europeo dell’Open Access. Di sicuro bisogna far presto, se si vuole restare al passo coi tempi. Perché anche sul fronte della produzione e della ricerca scientifica il futuro è già qui, è digitale e dunque dovrà essere condiviso. 

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