Una modesta proposta alla Commissione Toponomastica foto

Da Discesa Gradoni Porta Marina a Discesa Tubi Innocenti. Un’impalcatura permanente che rovina la strada più bella della città

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    di Lello Nisticò

    Perché una strada si chiama come si chiama e non in altro modo? Oh bella! Perché è intitolata a un personaggio o a un episodio notevole. Oppure ha caratteristiche tali da assegnarle una vocazione, una occupazione, una specialità per le quali può essere identificata in quel modo e non in un altro. Chessò: via Cicco Simonetta. Inutile spiegare dov’è. In tempi di Google Maps, poi. Comunque, è la striscia d’asfalto tra la discesa di Mauro e la chiesa dell’Osservanza. Chi fosse Cicco Simonetta lo divulgò all’atto dell’intitolazione l’allora sindaco Cesare Mulè durante un “Filo diretto” di Tony Boemi: un umanista e politico importante del XV secolo, nato a Caccuri, consigliere alla corte di Napoli degli Angiò e a lungo ministro degli Sforza a Milano prima di cadere in disgrazia per intrighi di corte e finire impiccato a Pavia nel 1480. Scusate la trasgressione. Era per dire che di calabresi notevoli, nel bene e nel male, ne abbiamo sempre avuti. Ma ritorniamo in strada.

    C’è a Catanzaro una via bellissima. Mio fratello che ci guarda da lassù dice che è la strada più bella della città. Merita un cartolina se il fotografo di skyline posiziona l’obiettivo di fronte San Rocco, al muretto sopra la fontanella pubblica, residuo di quando avere sete era bisogno comune prima che occasione da bar. Si chiama Discesa Gradoni Porta Marina. Occorre essere precisi perché esiste un’altra Scesa Gradoni, che dal retro del palazzo della Provincia sbuca al vecchio ospedale civile. Non è solo una curiosità, per molti è motivo di contrattempi postali. Molti plichi, pacchi e lettere tornano indietro con la dicitura “destinatario sconosciuto”. Perché il destinatario, ancorché conosciuto, abita all’altra Scesa Gradoni. Qualcuno poi arriva a dire che in città esiste un’altra Scesa Gradoni, a Gagliano. Non abbiamo avuto il tempo di indagare, ma sarà così. Catanzaro è città fatta a scale. C’è chi scende. Quando la giornata è tersa e ventosa le donne stendono il bucato a traverso sulla via che scende lunga e ripida, le case una di fronte all’altra, linee di fuga di un prospettiva che plana prima su Porta Marina e poi si spinge in fondo, oltre la pianura, fino al mare. La striscia blu dell’orizzonte in linea con gli occhi è lontana. A scuola ci dicevano che il mare dista dal centro dodici chilometri. Da sopra San Rocco sembra molto più vicino, e l’altezza della massa d’acqua pare imponente. Ecco perché qualcuno, al tempo, aveva pensato di portare il mare sotto il muro di Bellavista. Sembrava agevole nella città del Cavatore, delle miniere di bauxite, delle caverne sotterranee frequentate dai Legati Pii, scavare un lungo canale dalla base del colle fino a riva e lì fare defluire l’acqua, colmando una distanza che già si immaginava difficoltosa.

    Torniamo alla domanda iniziale. Si chiama Scesa Gradoni perché c’erano i gradoni. Gradini larghi, quasi quanto la carreggiata ma un po’ più corti, lasciavano ai lati un nastro liscio di selciato per consentire il transito ai carretti dei contadini o delle maestranze, in anni in cui il limite tra città e campagna era molto più labile di ora e molti vivevano del continuo scambio tra la terra intorno e il tetto in città. Fino a metà Sessanta, forse anche qualche anno più in là, era lo spazio cittadino adibito al mercatino del sabato. Tutta Porta Marina, e tutta Scesa Gradoni, si arredava di banconi, tende, ambulanti, ortolani. Grida, inviti, offerte, colori, odori. C’era un imbonitore, ricordo, che offriva a gran voce una lozione magica contro i calli e le verruche. Sempre allo stesso posto, davanti San Rocco. Proponeva la sua mercanzia come un cantastorie siciliano, con un cartellone dipinto a tempera come un grande fumetto. Nei riquadri si dipanava la compassionevole storia di una donna che per avere maldestramente usato forbicette e pinze per estirpare un callo passava a miglior vita per sopravvenuta infezione gangrenosa. Impressionante. Tant’è che quando davanti a San Rocco mi segno con la croce per devozione, certo. Ma anche un po’ pensando alla sventurata.

    Si trova in rete una foto di inizio Novecento virata seppia, scattata dal basso, a lato dell’antica Porta Marina, nella quale in piano medio ci sono due bambini, forse fratello e sorella, che guardano la macchina incuriositi. A lato una donna vestita d’epoca sull’uscio di casa e, sullo sfondo, l’ampia scalinata che portava su, fino a San Rocco. La foto si trova riprodotta in numerose litografie del Miglietta, che un chiodo sorregge sulla parete di numerosi uffici pubblici. Nel secondo dopoguerra, per favorire l’arrembante ricorso ai motori, la scalinata fu appianata con una generosa colata di bitume. Al furore asfaltatore scampò solo l’ultimo tratto, gli ultimi due o tre gradoni, davanti alla chiesa. Impedendo così di sbucare con l’auto su Corso Mazzini che incrocia proprio lì. Non ho prove, ma si tramanda che una mattina una Mercedes cabriolet targata Roma bianca, luminosa e lussuosa, la percorse tutta, da giù fino alla cima. Naturalmente arrivata al portone della chiesa non poté andare oltre. Per cui Franco Franchi, perché era lui che guidava fu costretto a una lunga e ardimentosa marcia indietro. Franco, di Franco e Ciccio. Ora un mito. Allora una star: qualcuna capitava dalle nostre parti ancor prima del festival di Gianvito Casadonte.

    Torniamo alla Discesa Gradoni. Allora, si chiama così perché una volta c’erano i gradoni. Sono un po’ in confusione, non ricordo se in un Piano Urban o in un‘Agenda urbana, o in un Prusst fosse previsto il loro ripristino. Sarei favorevole, lo dico da adesso così non ci sono equivoci. Però, allo stato, i gradoni non ci sono. In compenso, quasi a metà salita, o metà discesa – dipende – c’è un ingombro, un guazzabuglio, una ragnatela di metallo, un mostro tentacolare, un labirinto 4D, un tubo di Kubrick, non saprei come definire. Tecnicamente sarebbe una complicata impalcatura di tubi innocenti, una palizzata spessa quanto i bastioni del San Giovanni. Sta lì da più di cinque anni, a Natale ne fa sei esatti, messa su da una ditta incaricata dal Comune per sorreggere il muro che si alza sulla via, che era pericolante, o che avrebbe potuto pericolare, non si comprende bene. Per un concorso di fatti tra loro indipendenti. Questo muro era già sotto osservazione. Intanto, era stato colonizzato dalla noce americana. E che ci vuole, direte voi. Si prende uno schiaccianoci bello grande e si rimedia. E no, perché la noce americana è un vegetale arboreo infestante, che si insidia dappertutto, basta un granellino di terra su una crepa e da semino diventa un albero vero e proprio, che scava con le radici e fa danni. Forse non era noce americana. Forse era ailanto, altro infestante, ce n’è dovunque in città ormai. Comunque, ambedue brutti soggetti. Da prendere con le pinze. O anche con i caterpillar.

     

    Il muro in questione serve da contenimento a un giardino sovrastante, privato. È una tipologia di fabbrica comune nel centro storico, dove molte abitazioni di un certo pregio hanno come pertinenza un piccolo riquadro di terra. C’è chi ci pianta fiori. Chi mette la casetta di Fido. Chi l’albero di limoni che fa tanto Montale. Pare che il deterioramento del muro sia precipitato dopo l’intervento di sradicamento di due grossi alberi di alloro nel giardino, facendo venir meno l’effetto drenante delle radici. Testimoni diretti dicono che la notte seguente all’espianto il muro venne giù, invadendo la strada. Se il fatto sia solo coincidente o predisponente è tuttora sub judice. Si è aperto fin da subito un contenzioso tra Comune e proprietà, come spesso accade in presenza di muri divisori. Non pare che il contenzioso sia ancora sfociato in aula di tribunale. Ma il dialogo delle parti è stato serrato ed è tuttora aperto.

    Il passante, e ancor più il residente, il cittadino in genere, potrebbe chiedersi come mai non si è sinora provveduto a risolvere l’impiccio, che tra l’altro è stato anche oggetto di una interrogazione nel 2016 del consigliere comunale Iaconantonio. La riportiamo per la buona sintesi: «L’area è divenuta ricettacolo di rifiuti e sporcizia di ogni tipo con l’erba che cresce indisturbata da mesi e la presenza di topi in un periodo particolare come quello estivo. Voglio, quindi, segnalare al settore igiene un intervento urgente di pulizia e diserbo della strada, richiedendo, al contempo, al settore lavori pubblici, alla polizia locale e ai vigili del fuoco di valutare le opportune misure per scongiurare ogni possibile rischio alla sicurezza e all’incolumità». Viceversa non si è fatto nulla. Tale e quale show. Non è tanto la spesa in sé a essere di impedimento: secondo stime attendibili occorrerebbe investire, per un intervento risolutore e definitivo di messa in sicurezza e riduzione in pristino del muro, circa trentamila euro. A frenare il Comune nell’intervenire, pur in presenza di una evidente situazione anomala, è l’incertezza delle responsabilità e la possibile interferenza della magistratura contabile o ordinaria rispetto all’impiego di risorse pubbliche in presenza del diniego da parte privata di una equa ripartizione della spesa. Ed è probabile che non sia solo questo.

    Il sottosuolo catanzarese, è risaputo, è simile a un pezzo di Emmental. L’area in oggetto, che coincide con il Colle di San Trifone, ha una costituzione geologica non compatta, ricca di grotte, con sussidente contenuto di acque. Una volta messo mano su un muro di contenimento non si sa a priori cosa si va ad affrontare, a disturbare, a sollecitare. In poche parole, può darsi che l’Ufficio comunale di gestione del territorio, lato burocratico, non se la senta di intervenire motu proprio, ordinando lavori che presentano queste incognite. Potrebbe, dovrebbe, intervenire il Comune lato politico. Il manufatto è oggettivamente ingombrante, antigienico, tampona una situazione di pericolo, esso stesso forse rientra nel novero del rischio. E poi è veramente osceno. Nel senso che è fuori scena, fuori contesto, deturpa un angolo meraviglioso.

    O forse no. Talvolta si combinano circostanze reali e fantasie verosimili. Proprio di fronte al manufatto rugginoso, emblema dell’abbandono, una lastra di alluminio sbarra l’entrata a un’abitazione in chiaro disuso. Come ce ne sono sparse qui e là nei rioni di città. Di solito non si sa neanche di chi sono, lo stesso Ufficio del catasto non è in grado di risalire ai proprietari, perché partiti, emigrati, dispersi. Di questa però qualcosa si sa. È la casa in cui è cresciuto mastro Saverio Rotundo.

    Casa e laboratorio. Non per niente questa è stata per lungo tempo, per tutti, “a scinduta dei Forgi”. Potrebbe venire in mente che l’impalcatura non si toglie perché, nel suo utilizzare ferro e raccogliere ruggine, è l’omaggio dell’Ufficio Gestione del Territorio all’artista dell’abbandono. Anche se è probabile che lui per primo ne farebbe volentieri a meno.

    E allora, per chiudere, una modesta proposta alla Commissione Toponomastica della città di Catanzaro. Poiché di Gradoni non ce n’è più traccia, poiché l’elemento distintivo è l’impalcatura che è talmente importante da costituire ormai tratto imponente e permanente del paesaggio e dell’arredo urbano, mutiamo nome alla strada e non se ne parli più. Da Discesa Gradoni Porta Marina a Discesa Tubi Innocenti. Mica tanto, però, innocenti.

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