Zeffirelli: Una Traviata oltre la Vita

La recensione dello spettacolo andato in scena all'Arena di Verona subito dopo il decesso del noto regista. La firma Adele Fulciniti, sua grande amica 

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    di Adele Fulciniti

    Nell’accedere agli spalti areniani, il pubblico accorso dai più disparati angoli del globo, la sera di venerdì 21 giugno 2019, per l’evento della Traviata, si trova catapultato all’improvviso di fronte al boccascena di un teatro virtuale che fonde diversi elementi evocanti l’Opéra di Parigi o le Théâtre de la Renaissance, con tanto di sipario rosso, chiuso da due blocchi laterali in cui sono incastonati i palchetti dai quali si immagina che gli spettatori assisteranno al dipanarsi della trama del capolavoro verdiano, nell’ultima edizione concepita da Franco Zeffirelli, in un vero colpo da Maestro della metaopera d’arte. Dopo il saluto postumo da lui rivolto dal maxi schermo collocato sul proscenio, allo srotolarsi del lungo nastro tricolore sorretto dai coristi nell’intonare l’inno nazionale al cenno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha voluto sentitamente offrire il meritato tributo istituzionale, un’aura di profonda commozione avvolge la folla oceanica dei 13.500 presenti che, in piedi, fanno eco al coro, inneggiando così a Zeffirelli, portavoce dell’arte, della cultura e della creatività italiana nel mondo. E subito il carro funebre trainato da neri cavalli, contenente il feretro di Violetta, sulle note struggenti dell’ouverture, attanaglia gli astanti che intuiscono, in questa scelta, il presagio del regista della fine imminente del suo percorso terreno. Ma ecco la magia rubare il posto allo sgomento all’apparire dei bagliori della festa in casa di Violetta, una lussuosa dimora disposta su due piani in stile neoclassico, ricchi di lumi, di tende, di specchi, dove il piano superiore, con i suoi motivi dell’oro e del blu ci introduce ai piaceri dell’alcova e il piano sottostante, con le sue volte a crociera, le sue colonne sormontate da archi che delimitano rampe di scale semi illuminate e asimmetriche, si popola di convitati nello sfolgorio dei costumi lievi e spumeggianti, dai tessuti impalpabili e dai colori che si sposano in perfetta armonia, realizzati da Maurizio Millenotti sui bozzetti dello stesso Maestro. Su tutti spicca l’abito celeste pastello di Aleksandra Kurzak, impeccabile Violetta, che in esso si muove con la stessa agilità e disinvoltura che rivela nell’emissione vocale non priva di vibrante passione.

    La scenografia, importante per il genio visionario, in quanto linea guida della sua stessa regia, ci offre ancora mirabolanti sorprese nel secondo atto, dove una tenda verde dai risvolti rosa fa capolino dal boccascena e apre alla vista una magnifica veranda liberty cha dà sul parco della villa, in un incantevole gioco prospettico creato dalla disposizione delle colonne che la sostengono. Al di qua della veranda, l’interno della casa di campagna, nido d’amore e di speranza di una vita nuova per Violetta e Alfredo. La pace è rotta dall’intrusione di papà Germont, nell’interpretazione asciutta e nella dizione chiara di Leo Nucci che sostiene magistralmente il ruolo del guastafeste. Nel secondo quadro del secondo atto avviene uno stravolgimento della scena: ritornano i palchetti alla ribalta inseriti nei due blocchi laterali che chiudono il semicerchio degli elementi compositivi della casa di Flora Bervoix, dove incombe il rosso sanguigno a cadenzare l’ira di Alfredo, il tenore Pavel Petrof dalla voce calda e dall’interpretazione convincente, nonché l’invasione dei gitani e delle zingarelle nella girandola coreografica di Giuseppe Picone, resa ancor più efficace dall’intrigante gioco delle luci di Paolo Mazzon. Il terzo atto, che vede il culmine del sacrificio di Violetta consunta dalla tisi, il pentimento di Germont padre e il dolore accorato di Alfredo, cambia ambientazione: il lungo flashback della protagonista, partito con “l’addio del passato” dell’ouverture, ha il suo epilogo in una dimessa camera da letto, a simbolo dell’abbandono dei fasti del mondo. Daniel Oren che non ha perso neppure per un attimo la sua foga e il suo impeto abituale, pur provato visibilmente dalla perdita dell’amico Franco, compagno di viaggio in strabilianti avventure, viene osannato dal pubblico che regala allo spettacolo un’ovazione di ben 15 minuti, al grido di: -Viva Zeffirelli!-

     Su tutti si erge la figura di Cecilia Gasdia, illuminata Sovrintendente nonché Direttore Artistico dell’Arena di Verona, già gloriosa Violetta zeffirelliana che, dall’alto della sua rarefatta sensibilità e gratitudine verso il Maestro, ci ha regalato questa perla inconfondibile che chiude la rilucente collana del suo repertorio.

    Continuerà fino al 5 settembre, il vate della lirica, ad offrirci il suo incanto dal tempio areniano a lui sempre caro, con una Traviata che non finisce di sorprenderci, rivelando la sua capacità, fino all’ultimo respiro, di risultare ogni volta nuovo nelle sue ispirazioni poetiche, nella plurima veste di pittore, scenografo, regista e costumista, ma soprattutto, come i suoi illustri predecessori del Rinascimento, di Maestro di bottega; e il vivaio di giovani apprendisti da lui allevati, oggi affermati professionisti nell’arte dello spettacolo, ha dato i suoi frutti prelibati in quel superbo lavoro di squadra che Carlo Centolavigna, Stefano Crespi, Massimo Luconi hanno sapientemente condotto nell’assoluto rispetto degli intendimenti e delle dettagliate indicazioni dell’artefice di quest’ultimo capolavoro, summa del suo genio sublime, nel momento in cui il precipitare delle condizioni di salute e il sopraggiungere della morte li hanno privati della sua guida sicura, facendo tesoro della massima zeffirelliana: “la vita non è che un continuo passaggio di esperienze da una generazione all’altra: prima imparare e poi insegnare a chi viene dopo di noi”.

    Così, a dispetto di insidiose creature striscianti e velenose, il nostro eroe spiega una volta di più le sue ampie ali per raggiungere le vertiginose vette dove osano le aquile.

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