L’INTERVENTO- Raimondi: ‘Ecco perchè Gratteri non ha ragione’

L'Avvocato cassazionista replica in merito alle dichiarazioni del procuratore sulla sentenza emessa dalla Corte europea sull'ergastolo ostativo

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    di Nunzio Raimondi*

    In un articolo pubblicato come sempre “a reti unificate” abbiamo appreso dell’opinione del procuratore capo di Catanzaro sulla sentenza emessa dalla Corte Europea Viola c. Italia. Si tratta di un giudizio sferzante che si unisce all’ampio fronte giustizialpopulista che ha visto molti magistrati antimafia far fronte comune contro questa decisione.

    La critica è comune ed il dottor Gratteri la sintetizza così:”È stata demolita la lotta alle mafie”.Categorico. Ecco io sento di dissentire dall’opinione del procuratore di Catanzaro, che rispetto tanto per il suo impegno professionale pur avendo una concezione della giustizia completamente opposta alla sua. Io, per esempio, non penso affatto che “un boss non smette mai di essere tale” e che buttando la chiave della galera, negando ogni speranza di libertà attraverso la rieducazione del condannato, si ottenga la vittoria su quella malapianta che è la criminalità organizzata. Anzi,penso l’esatto contrario: penso che lo Stato si distingue dall’antistato se giudica secondo regole,se obbedisce alla Costituzione ed alla funzione rieducativa della pena.

    Se ci prova ad essere diverso da loro, nei modi e nei mezzi, se non s’illude che l’opera di rieducazione sia l’unico mezzo -nemmeno il principale- per produrre il risultato della legalità e del reinserimento sociale, non quella delle marce o delle passerelle ma quella che parte dalla solidarietà e dalla conoscenza dei valori fondativi del patto sociale, quella vissuta nella quotidianità dei comportamenti di ciascuno, non quella proclamata nelle pubbliche piazze. La legalità non è nemmeno demanio delle Procure ma di tutti gli operatori del diritto, coinvolti, a tutti i livelli, a dar corpo all’essenza della legge. Il magistrato non è un eroe,intrepido lottatore contro l’illegalita: Egli incarna invece l’equilibrio della legge e vi si sottomette anche se i valori che essa esprime confliggono con le sue personali visioni. Ecco perché mi ha stupito la sortita del dottor Gratteri ed anche di alcuni altri importanti magistrati di fronte ad un pronunciamento proveniente da giudici, peraltro di ultima istanza. Mentre non mi ha stupito che il ministro della giustizia la pensi come il procuratore di Catanzaro:”Oggi la Corte di Strasburgo ci dice che l’ergastolo ostativo viola i diritti umani e che dovremmo riformarla. Ma stiamo scherzando? Se vai a braccetto con la mafia, se distruggi la vita di intere famiglie e persone innocenti, ti fai il carcere secondo certe regole. Nessun beneficio penitenziario,nessuna libertà condizionata.”

    La pena, anche per lui, deve essere sofferenza e basta, altrimenti chi sbaglia può illudersi che “convenga delinquere”. Ma il dottor Gratteri, a questa posizione chiaramente populista (questa è l’aria corrente…), ha aggiunto un particolare che merita di essere approfondito. Egli ha detto -più o meno-: se diamo una speranza ai mafiosi che usciranno dal carcere senza collaborare,nessuno si pentirà più e la lotta alla mafia arretrerà.

    Ecco, proprio poco meno di una ventina di giorni fa,prendendo la parola in un convegno nazionale dell’Unione delle Camere Penali, organizzato a Palmi Calabro,ho cercato di fare il punto proprio su questa visione carcerocentrica della giustizia,ipotizzando,fra l’altto che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nell’alveo della propria giurisprudenza più recente, avrebbe potuto attingere largamente per la decisione sull’ergastolo ostativo, ai principi fissati dalla nostra Corte Costituzionale sin dalla Sentenza n.306 del 1993. Mi permisi di osservare che le alternative alla detenzione riguardano la pena,la sua esecuzione e,quindi,gli aspetti trattamentali;che la collaborazione con la giustizia,considerata quale presupposto operante allo stesso tempo per la concessione e per la revoca delle misure alternative alla detenzione,mette in evidenza un’attitudine intrinseca a svalutare la funzione rieducativa della pena.

    Mentre la prospettiva di fondo delle misure alternative alla detenzione è quella di far recuperare quote di libertà in ragione dei progressi compiuti dal detenuto come risultanti dall’attività di osservazione durante il trattamento,sopratutto in relazione alla partecipazione all’opera di rieducazione. Feci presente che l’indice che la legge assume a base della valutazione rimane quello presuntivo della cessata pericolosità sociale,sopratutto agganciato,nella formulazione attuale,a parametri probatori esterni rispetto alla progressione trattamentale e di fatto svincolati dalla rieducazione del condannato.

    Ecco dove sta la profonda differenza di visione: l’esecuzione della pena non deve obbedire a logiche (emergenziali) di “lotta” alla criminalità organizzata, oppure le misure alternative alla detenzione trasformarsi in meccanismi meramente premiali in cambio della collaborazione, oppure -come pure è avvenuto in passato- obbedire a logiche deflattive;tutte queste sono “anomalie”(così le definiva il grande maestro del diritto penale italiano,Franco Bricola) rispetto alla natura stessa dell’alternativa alla detenzione,fondata interamente sulla progressione trattamentale e rieducativa. Naturalmente,se si piega l’istituto a finalità differenti fino a produrre un’innaturale patteggiamento tra rieducazione e collaborazione,si snatura la funzione stessa delle misure alternative alla detenzione.

    “Buttare via la chiave” per taluni reati, infatti, se non a prezzo di una collaborazione attiva oppure di una collaborazione giudicata impossibile, implica un asservimento del diritto penale liberale a mere logiche premiali, senza contare che le emergenze non si fronteggiano implementando una concezione carcerocentrica del sistema, ma dando applicazione effettiva ai principi costituzionali posti alla base del patto sociale.

    Ora,la grande ricchezza che ci viene dalle Corti sovranazionali (ne ho scritto sull’Indice Penale un paio d’anni fa trattando il tema del “dialogo fra le Corti”), sta proprio nella loro capacità di evidenziare, per effetto della visione sovranazionale di queste giurisdizioni, alcune storture dei sistemi nazionali, così da riportare,con l’autorità di una pronunzia che proviene da giudici, alcuni istituti alla loro originale funzione, nella specie affermando che non può negarsi il diritto alla rieducazione in nome di “verità” che il sistema dovrebbe acquisire senza ricatto. Ecco perché,in fondo,in questa sentenza la Corte Europea ha trovato il modo di scrivere che Essa “dubita…dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato”.

    Perché, caro dottor Gratteri (mi perdoni la confidenza), la collaborazione può esser connotata anche da finalità puramente opportunistiche di accesso ai benefici penitenziari ed anche questa opzione non riflette certo (quanti i casi) una dissociazione effettiva dalla scelta criminale. Ecco perché è stato giusto affermare che la “dissociazione” dall’ambito criminale si possa ricavare anche da altri elementi che non siano la collaborazione con la giustizia, perché spetta ai giudici e non ai pubblici ministeri di stabilire se un detenuto ha raggiunto una progressione rieducativa che consenta di accedere ai benefici penitenziari. Ai giudici italiani, quindi, a cominciare dalla prossima udienza del 22 ottobre in Cassazione, dare una interpretazione convenzionalmente orientata delle norme nazionali. Ai magistrati di Sorveglianza, riportare le norme sull’Ordinamento penitenziario alla loro ispirazione costituzionale.

    *Avvocato cassazionista. Professore a contratto di Genesi e dinamiche dell’organizzazione criminale nell’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro

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