Quasi un anno fa l’incidente che fu fatale a ‘U Ciaciu, artista che era egli stesso opera foto

Il ricordo di Stefano Morelli, uno dei fondatori del Movimento Altrove che contribuì a dare al maestro Saverio Rotundo la popolarità spesso negata dalla città

Il primo aprile dello  scorso anno Saverio Rotundo, in arte U Ciuciu, in un bel pomeriggio primaverile cadde in una scarpata di via Carlo V. Non si riprese più da quell’incidente, e poco più di un mese dopo morì lasciando così un vuoto nell’arte contemporanea catanzarese che, a dire il vero tardò un pò a scoprirlo, o comunque a dargli quello spazio che meritava.

La primavera artistica di Maestra Saverio arrivò anche grazie alla tenacia e perseveranza di alcuni giovani che qualche anno fa si erano messi in testa di riutilizzare gli spazi abbandonati, di usare i muri incolore e spesso abbandonati come tele da dipingere e perché no? Di restituire un po’ di merito artistico a U Ciaciu, maestro del ricicli dei materiali e visionario romantico di una realtà che si ripete.

Quel movimento si chiamava Altrove e a farne parte anche Stefano Morelli, che oggi sul suo profilo facebook, a quasi un anno da quell’incidente, ricorda U Ciaciu. Le foto d’archivio, come specifica Morelli, sono state concesse dalla famiglia.

Di Stefano Morelli

La storia è una rappresentazione parziale a cui a volte sfuggono esperienze che per la loro eccentricità non trovano giustificazione in artificiosi sistemi mentali.
Accade così a volte, molto più spesso di quanto si possa immaginare credo, che non vengano registrati fatti numinosi e innovatori, che la storia passi ignorandoli, per la sola colpa di non aver avuto successo per come la società impone, per non essersi allineato alla corrente intellettuale dominante, per non essere appartenuto a un gruppo o al mercato.

gli artisti veri sono solo gli uomini primitivi che sacrificavano il tempo della caccia e del raccolto e non avendo di che nutrirsi pittavano le caverne.

“Non credere che con questo io mi arrendo. Perché so come la storia dell’arte è traditrice. Recita un passo spietatamente consapevole di una opera manifesto di Saverio Rotundo. L’Arte è guerra, l’Arte è tutto usava ripetere, e <gli artisti veri sono solo gli uomini primitivi che sacrificavano il tempo della caccia e del raccolto e non avendo di che nutrirsi pittavano le caverne>.
E’ d’altronde difficile tracciare, anche solo sommariamente, la biografia di un uomo che ha fatto di sé un mito, debordando ogni convenzione, facendosi tutto Opera, fondendo i limiti del dell’arte e della vita in una immediatezza che si perpetua irrinunciabile nell’attimo della creazione, nel tempo dell’Opera.
Classe 1923 , Saverio Rotundo è stato fabbro, inventore ed artista. Nato e vissuto a Catanzaro lì è morto nella primavera del 2019,circondato dall’affetto di un popolo che prima di capirlo lo ha amato. Dal carattere indomito e rude, Saverio attraversa quasi tutto un secolo con spontanea adesione alle sue contraddizioni; nasce sotto il mito del Duce, vive la guerra e i mutamenti epocali della seconda metà del secolo, il boom economico e il consumismo, la rivoluzione sessuale e il femminismo, le crisi e le guerre. Con l’affermarsi dell’Era nuova, del benessere, della tecnologia e delle interconnessioni, vede il disfacimento della civiltà in cui era nato e l’istituirsi di altra, ancora oggi convulsa.

All’età di 8 anni, perpetuando il rito che dal Medioevo ha reso grande la civiltà artistica italiana, entra in bottega presso la forgia di Mastro Pullano

Qui, oltre che a leggere e a scrivere da autodidatta, affina la tecnica già appresa nella fucina paterna annessa alla casa di scesa gradoni, una volta conosciuta come scesa delle forge. Da Pullano, Saverio si fa forse ultimo grande testimone della tradizione che, insieme alla lavorazione della seta, ha caratterizzato la storia manifatturiera della Città. E l’impressione sbalorditiva che un bambino può avere del ferro e del fuoco nella penombra satura della forgia, del loro odore che insieme brucia i polmoni, e poi della possibilità di vincere la materia attraverso la tecnica e l’ambizione, Saverio la porta con se tutta la vita.

Il padre, Francesco, anch’egli fabbro, combatte nelle due grandi guerre. Nella prima guadagna il soprannome che passerà poi al figlio artista, ‘U Ciaciu’ , che se dotati di una certa disinvoltura, può essere tradotto come ‘colui che dice ciao’

Rientrato dal servizio di leva nel maggio del 1915, il giorno stesso viene richiamato per l’entrata in guerra dell’Italia e allora i ‘ciau’ con cui salutava gli amici e i paesani ritrovati si sommarono a quelli che annunciavano la separazione e forse l’addio: cia’ cia’, ciau’…cia’ciau.. ciaciu. Nella seconda perde la vita durante gli ultimi scampoli del conflitto: dopo essere stato ferito sui bastioni di porta Marina a due passi da dove nacquè, perí nel bombardamento del sanatorio dove era ricoverato, l’attuale ospedale “Ciacciao”, il 28 Agosto 1943.
Oltre che il soprannome , eredita dal padre anche la responsabilità di otto tra fratelli e sorelle minori diventando il capo di una famiglia che negli anni diventerà un clan con infinite decine tra nipoti, pronipoti, bis nipoti. Di fronte la forgia di Pullano sita a metà di via de Grazia, era a servizio una ragazzina dai lineamenti taglienti e che dimostrerà nella sua vita un pazienza quasi benedetta, Chiara Pullí. La vede e la scruta attraverso una grata che ancora esiste, la sposa e insieme avranno quattro figli avviando negli anni diverse attività commerciali come lo storico Mobilificio Pullì di via Poerio, da subito più un luogo di sperimentazione alchemica che un normale negozio.

Io artista non lo sono diventato, lo sono sempre stato, ci sono nato.

È difficile supporre quando il giovane artigiano applicandosi nella realizzazioni più varie si sia trasformato nell’artista, compiendo quel miracolo immenso che avviene quando la fantasia è libera di traboccare i limiti dell’astratto. Scarsissime sono le fonti documentali, ma probabilmente fin da subito come egli stesso sosteneva e come dimostrano alcune opere dalla assai precoce datazione.

Sicuramente nel dopo guerra osservando quel mondo dilaniato e dissepolto, disegnato da macerie e ferraglie contorte in forme nuove, inizia a raccoglierne le reliquie cercando metalli da riforgiare e tutto ciò che potesse trovare un nuovo utilizzo.

La spazzatura è oro,  ripeteva spesso , durante la guerra bollivamo la paglia per mangiare, la spazzatura è oro, di cosa credi che siano pieni i musei di arte antica, un giorno le discariche saranno scavate come miniere.

Saverio sviluppa in quegli anni una relazione nuova con la realtà, con il creare e lo svelare, comune anche se in declinazioni assai differenti negli stessi tempi e in altri luoghi alla ricerca di artisti, come Ettore Colla in Italia o anche David Smith negli Usa solo per citarne alcuni. Riconosce come nuova materia prima significante l’oggetto rifiutato, de funzionalizzato, abbandonato e proprio in funzione di questo abbandono non più struggente , carico di nuovi valori poetici.
Avviene in lui un singolare aderenza tra vita e arte che lo distingue dai sui celebrati contemporanei, che ne fa l’archetipo dell’antintellettualismo, elevando l’avanguardia concettuale a quotidianità.

Dotato di un intelligenza quasi leonardesca, e nella vecchiaia ci assomiglierà quasi a Leonardo con la stessa profondità di sguardo e stesso aspetto da Merlino trascurato, univa il diletto per l’esercizio della tecnica con l’intuizione visionaria creando con le sue opere mondi nuovi e inaspettati; sentendo il proprio agire come una esigenza demiurgica e irrinunciabile. Curioso di tutto, tutto guarda e da tutto apprende, confrontandosi con ciò che conosce cosi come con ciò che non conosce, ma che intuisce, in una comunione che è prima di tutto spirituale e poi intellettuale. Le poche opere sicuramente databili agli anni Sessanta parlano di una capacità veggente di Saverio che lo allinea, come detto, alle ricerche artistiche internazionali allora più feconde.
In ogni caso, rimanendo a ciò che è certo, si applica nella realizzazione di grandi carri allegorici in occasioni del carnevale. Lontano dall’essere realizzazioni puramente ludice, erano strutturate come vere e proprie installazioni performative. Inventa la sua Galleria mobile, auto o carri imbanditi delle sue opere e dei suoi manifesti con cui scorrazza per l’Italia. Inizia l’accumulo di oggetti e ferraglie in numerosi magazzini cavernosi che imbastisce come luoghi di meraviglia e di sorprese.

L’incontro fondamentale è con Tony Ferro direttore dell’accademia di belle Arti di Catanzaro istituitasi nel 1972. Saverio vi si iscrive in quell’anno, diplomandosi nel corso dei decenni in tutti i suoi corsi, senza smettere smetterà mai di frequentarla.

Da li, probabilmente, la sua dirompenza trova i mezzi e i canali per ramificarsi ancora. Si confronta con la grande tradizione italiana e con le esperienze internazionali dell’arte, le fa sue e le restituisce destrutturate e con una nuova sintesi. Innalzandole in semplicità e immediatezza.
Ma non bisogna pensare che Saverio Rotundo nasca come artista dell’Accademia, quando vi giunge il suo multiforme universo estetico è strutturato, il suo sistema teorico completo, la maggior parte delle opere monumentali compiute. Li in Accademia trova un mondo finalmente amico, un enorme laboratorio dove sperimentare ancora tecniche, giovani compagni e compagne affascinati e coinvolti dalla forza evocatrice della sua personalità centripeta.
Viaggia ovunque, scomparendo per mesi dalla città e dalla famiglia. Occupa le città e le piazze con le sue “nausea” d’arte, imponendo al mondo una visione sovversiva dei valori estetici comuni. Negl’anni elegge Vieste e Anacapri come nuove case. Saverio Rotundo, additato come pazzo, è stato un solitario esploratore del mondo. Con sensibilità profetica Saverio sembra confrontarsi con il newdada e il nouvelle realisme, con l’artepovera e il Minimal, con loro sembra condividere quella pratica che trasformava “in oro luminescente il plumbeo piombo del quotidiano”. Parla con Rauschemberg attraverso le sue opere , vede probabilmente in sogno i lavori Stankiewicz e di Conner. Sembra voler rimproverare con la sua vita e le sue opere un certa pochezza di ambizioni ad Arman e senza conoscerne l’esistenza elegge a proprio fratello Tinguely . È consapevolmente creatore di un nuovo sistema valoriale, forse la sua opera più importante : L’ Arte di tutti i tempi dell’abbandono.

Incarnata nella Galleria dell’abbandono, allestita difronte la chiesa del San Giovanni a Catanzaro

Li costituisce una wondercamen catalogando, con piglio enciclopedico, tutte le forme dell’abbandono e sue incarnazioni nell’oggetto. Un mondo fatto di ferro, sporco, rugine, diversità, varietà, sopravivvenze, persistenze, sorprese e vita e gioia. Come un dio che ha tutto in se. E in se tutto riporta.

Li, solo pochi mesi fasi, si potevano scoprire, scavando come archeologi della fantasia, le sue compressioni ,le fusioni casuali e irripetibili, le sagomature a fuoco di pannelli arrugginiti dai quali derivava opere concettuali e al contempo puramente estetizzanti. Le sculture realizzare con ferri di cavallo battuti e saldati fatte di rugine e fuoco, monumenti che sono stati imposti alla città come baluardi in una guerra con la potenza di apparizioni o, ancora, i portali , le scenografie e le architetture, le installazioni, i costumi fatti di latta o di schiuma commista a sete antiche.
Oggi, con la galleria vuota, in momentaneo abbandono, ancora di più sembra risuonarne la forza, come se l’assenza proponesse con più manifesto rigore la potenza del genio.
Rifiutando l’idea di luoghi riservati all’arte da una parte, e ignorato dalle istituzioni culturali dall’altra, produce un infinita serie di esposizioni all’aperto imposte alla Città occupando il suolo pubblico. Le sue ‘nause d’arte’ furono allestite con una certa frequenza anche nelle piazze principali di Milano, Venezia, Torino, Capri, Vieste, Roma, Napoli e chissà ancora dove. Senza nessun orpello espositivo, senza cioè trasformare il rifiuto in arte ma , spietatamente, l’arte in abbandono, avviando così un infinito succedersi di dimenticanza e scoperta. Alleste, non solo a Catanzaro ma anche in piazza Duomo a Milano, o in Galleria Umberto I a Napoli, le installazioni interrogavano i passanti.
Le sue mostre non sono la dimostrazione di una tesi o un evento mondano o l’illustrazione conclusiva di un qualsivoglia studio,al contrario furono quesiti, per suscitare interrogativi a mettere in discussioni le visioni dominanti proponendone altre che chiedono tutt’ora di essere vissute e sperimentate.

l’arte non si può vendere, io non truffo la gente, quello che mi faccio pagare è il lavoro. Dimmi, di chi è il David? Potrà mai essere di qualcun’altro se non di Michelangelo?

Non seppi rispondere allora, ne mi resi conto dell’enormità di ciò che significava.
Ora, che mi sento suo orfano, studiandone la personalità e l’opera , confrontandomi con la loro precocità inaspettata, con la loro strutturazione formale e iconografica, con il carico di suggestioni di cui sono portatrici viene da chiedermi: Catanzaro è stato un luogo fecondo all’arte senza rendersene conto? Uno degli artisti italiani più originali del secolo scorso ha fatto della città il suo palcoscenico e nessuno se ne è accorto? È possibile in questa era dell’apparire essere segreto, solitario e schivo ed essere egualmente grande? Si è stato cosi. Viva il Ciacio.

(Grazie ad Anna e a tutta la famiglia Rotundo per avermi concesso la pubblicazione delle foto d’archivio).