In attesa della Monografia Crimasso “Dolce Vita” sui capolavori felliniani, Mascitti presenta il giovane artista catanzarese

Cristian Mancuso, in arte Crimasso per il braccio destra di Mimmo Rotella raccoglie l'eredità dei surrealisti

Il giovane e il vecchio. Crimasso e Federico Fellini. Non un confronto generazionale, ma la celebrazione della bellezza, attraverso le vie infinite dell’arte. «Un vero artista non ha età», diceva il mio mèntore Mimmo Rotella. E il maestro Fellini era lui stesso un giovane artista che tra immaginazione e sogno, tono grottesco e dissacrante, buffonesco e tragico, è riuscito a penetrare e indagare le pieghe dell’animo umano come nessuno, trasformandole in immagini di impareggiabile bellezza. Una bellezza fatta di contraddizioni, non canonica e stereotipata, la stessa che ha spinto Cristian Mancuso, in arte Crimasso, a sceglierne una dove la natura del sé e dell’inconscio la fa da padrona, nel bene e nel male. Un’arte come necessità, non mestiere, come liberazione, non esibizione dell’ego.

Il primo incontro è avvenuto in un club d’artisti, aveva appena 16 anni. A colpirmi è stata un’opera che rappresentava un cervello. L’aveva realizzata a seguito di un incidente che l’aveva visto coinvolto pochi anni prima. Un’esperienza tragica che però gli aveva appena consegnato le chiavi per aprire la porta della sua creatività, da quel momento, strumento terapeutico di grande efficacia. Per sé e per gli altri. Lo spiega bene Jacques Lacan, medico, psichiatra e psicoanalista francese, che nei suoi Altri Scritti mette in primo piano il rapporto tra l’inconscio e il godimento. Imprescindibili anche nell’arte. Il primo è strutturato come un linguaggio, una rete che funziona secondo una logica, anche se non è quella dell’io cosciente. È qui, in questa rete che circola il godimento, una muta pulsione. La stessa che ci fa apprezzare quel linguaggio logico e al tempo stesso illogico di un’opera d’arte.

Le opere di Crimasso, nella loro modestia, guardano in fondo all’animo. Raccogliendo l’eredità dei surrealisti e di Jean Dubuffet – che rivaluta l’arte come un’estrema forma di primitivismo, da qui art brut – hanno un valore propedeutico enorme. Le sue opere sperimentano il dolore e l’ansia di liberazione ma resistono a una caduta e immaginano una salvezza; costringono a guardarle oltre ogni astuzia formale e concettuale, con un rispetto e un’attenzione profonda; la stessa che riserviamo a momenti chiave dell’esistenza come la nascita, l’amore e la morte.
Nella mia lunga esperienza in questo mondo, lavorando – tra gli altri – con Pino Pinelli, Giosetta Fioroni e, ovviamente, Mimmo Rotella. E formandomi con il mio primo maestro Pierre Restany, critico francese che Andy Warhol definì “genio”, frequentando storici e curatori quali Robert Storr (MoMA di New York), Harald Szeemann, pioniere dei curatori indipendenti, Renato Barilli, Fabrizio D’Amico, Achille Bonito Oliva e Germano Celant, inventore dell’arte povera, con i “suoi” big Jannis Kounellis e Michelangelo Pistoletto, sono convinto che in questo periodo ciò di cui abbiamo bisogno è un traghettatore di anime, verso il paradiso dell’arte. Confrontandomi, inoltre, con Cécile Debray (Museo d’Orsay) e Bernard Blistène del Centre Pompidou di Parigi, sono altresì convinto che siano i giovani la vera speranza del futuro, soprattutto nell’arte: l’unico potente antidoto contro il malessere, la liberazione dai nostri demoni, dalle ombre dei cattivi spiriti. Lo dimostra il giovane Crimasso, lo diceva il “vecchio” Fellini: «Credo che l’arte sia questo, la possibilità di trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in felicità. L’arte è un miracolo».

Piero Mascitti