New York arriva a Davoli superiore grazie alle suggestioni fotografiche di Luna Loiero foto

Una madre vissuta a Long Island, ma un attaccamento viscerale alla sua terra, così la giovane fotografa spiega le genesi della sua raccolta

A New York, della bandiera americana, le stelle sono “le persone di ogni razza ed età che la vivono”, le strisce, invece, sono le “geometrie di una città unica al mondo”, le linee orizzontali delle strade e quelle verticali dei grattaceli, per esempio. Sono queste le due direttive di “Stars and stripes” – stelle e strisce, appunto -, il nuovo libro della fotografa Luna Loiero, stampato da PressUp. E’ una raccolta di scatti che la stessa Loiero ha fatto nei suoi numerosi viaggi nella Grande Mela, inseriti in un percorso ideale per la conoscenza della città, stilato da questa appassionata frequentatrice calabrese.

«Mia madre ha vissuto a Long Island, a due passi da New York, per dieci anni, e la maggior parte della sua famiglia tutt’ora si trova lì – spiega l’autrice fra le pagine -. Per questo motivo ho avuto l’occasione di andarci spesso e, soprattutto negli ultimi anni, di sperimentarla più a fondo, gustandola un po’ alla volta, macinando chilometri a piedi, osservandola più che da turista quasi da spettatrice di un film già visto, ma che all’improvviso si ritrova magicamente sul set e può vivere la narrazione dal di dentro».

Quello di Luna Loiero è uno sguardo consapevole dell’oggetto da descrivere, allora, che con molta delicatezza si snoda lungo un cammino che parte dalla Penn Station di Manhattan – «Un mix di odori, suoni e umanità» -, prima di prendere il largo e conoscere la città un “block” dopo l’altro. Dall’Uptown a Downtown, inseguendo i mitici taxi gialli, dal Greenwich Village, la StonewallInn, Little Italy, Chinatown, il Bronx, il Rockfeller Center, prima di arrivare a Time Square, che Loiero consiglia di visitare al tramonto, «perché oltre al bagno di folla ci si immerge in un bagno di luci e coloridal sapore quasi lisergico… E’ un viaggio nel viaggio in cui perdersi perritrovare l’essenza di una metropoli».

In “Stars and stripes”, uno spazio un po’ più approfondito è riservato a Central Park e Harlem, ma soprattutto a Ground Zero, con il ricordo della paura e preoccupazione per i propri cari, con il simbolo della FreedomTower, perché «New York è una città che non si arrende, che ricostruisce, in costante movimento e in costante evoluzione».

L’ultima cosa da fare, secondo il percorso tracciato dalla fotografa, è «salire fino all’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building e osservare la città dall’alto». E’ questa l’immagine di New York che sintetizza tutto anche se è «il contrario di ciò che ho fatto io nel libro, muovendomi dal basso – ci spiega -. Se si vuole riassumere tutto, vederla dall’alto ti dà l’idea della sua grandiosità. Ovviamente me la immagino al tramonto, illuminata da queste migliaia di luci: di giorno vedi riflessi nei grattacieli le nuvole, il cielo, di notte i palazzi si illuminano e distingui proprio la presenza all’interno, percepisci questa vita continua che non dorme mai. E poi anche le strade con migliaia di persone come formichine che vedi camminare, le macchine, il traffico continuo, questa vivacità, questo continuo movimento. E’ l’apertura alle mille possibilità che la città ti offre».

Inutile dirlo, il fascino della città, sull’autrice di Stars and Stripes è evidente, tant’è che chiude il testo sostenendo che«E’ strano a dirsi, ma è l’unico altro posto al mondo in cui mi sento a casa».

Perché il primo posto, in realtà, rimane la nostra terra. «La verità è che l’America è qui, ma non ne siamo consapevoli – ci risponde con semplicità -. Lo dico da un sacco di tempo: ci sono più possibilità laddove non c’è nulla; dove c’è già tutto è chiaro che inventarsi qualcosa di nuovo, di diverso è molto più difficile. Il problema è proprio di mentalità: a New York si sa che si può fare tutto, ci si va per avere prospettive di vita migliori, avere più possibilità. In realtà le possibilità ci sono anche dove non c’è nulla. E’ un po’ quello che faccio da tempo nel mio piccolo, con il laboratorio FerMentis che condivido con un amico. Ci ho portato un po’ del fermento artistico che ho visto lì. Pur essendo a Davoli superiore, nel posto più “sperduto” del mondo, riusciamo a respirare un’atmosfera creativa. Tutto sta nel condividerla, nel portarla all’esterno. E’ lì che sorgono le difficoltà».

«Mi piace scommettere sulla mia terra e l’idea di cambiare le cose qui – conclude -. Per il momento New York la considero la mia seconda casa, e ho imparato che davvero “mai dire mai”, bisogna restare aperti a ogni possibilità. Potrei andarmene, ma per adesso cerco di portare un po’ di quello che ho visto lì qui. Perché questa terra ne ha bisogno, e anche perché abbiamo risorse che altrove sognano: l’aria, il cibo, il contatto umano. Li sottovalutiamo spesso, ma sono i beni essenziali, lo abbiamo imparato un po’ tutti con questa pandemia, ma già lo sapevamo. Sfido chiunque ad andare là, mangiare frutta e verdura e dire che ha lo stesso sapore della nostra, qua. Sembrano sciocchezze, ma non lo sono. Cerchiamo di scoprire l’America che c’è qui. E per America ovviamente intendo tutto ciò che c’è di bello».