Tradizioni, ricerca, famiglia. I mustazzoli nuovo “pretesto artistico” di Viapiana per raccontare la Calabria foto

L’eclettico artista catanzarese sorprende ancora con la sua capacità di interpretazione della realtà

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Non smette mai di sorprenderci Luca Viapiana, eclettico artista catanzarese, fine osservatore della realtà circostante e caparbio persecutore di un’arte che ha al centro della rappresentazione la tradizione e l’appartenenza. Ma non solo. Luca Viapiana, in continuità con quanto aveva già fatto realizzando un packaging per un’azienda produttrice di dolci, per questo Natale offre al pubblico l’interpretazione di una tradizione, quella della realizzazione dei “Mustazzoli”.

LA STORIA

Per l’esattezza il panettone realizzato con il mustazzolo di Badolato, paesino jonico del primo entroterra. I mustazzoli sono dolci tradizionali a base di farina, vin cotto e miele, famosi in tutto il mondo per le loro fattezze zoomorfe e antropomorfe. Dalla forma alla ricetta, fino allo stesso appellativo, ogni zona conserva la sua versione. La peculiarità del “mastazzolu” badolatese sta nel fatto che, una volta cotto, va intinto ancora tiepido nel mosto d’uva per sette volte. La tesi più accreditata vuole che il nome derivi proprio dal latino “mustum”, ma secondo altri l’etimologia andrebbe cercata in Magna Grecia, nel verbo “mastázō”, masticare. La citazione più antica risale al IV secolo a.C. Negli “Idilli” del poeta ellenico Teocrito la cantatrice che celebra Afrodite, nel citare i doni di cui la dea è degna, decanta quei “cibi che le donne fanno sulla spianata mescolando fiori d’ogni genere con bianca farina e dolce miele; tutto è qui, in forma di creature dell’aria e della terra”. Anche Catone, nel “De Agri Cultura” (150 a.C.), menziona una focaccia romana con le stesse caratteristiche dal nome “mustaceum”. “Come spesso avviene – dice Luca Viapiana – alla natura pagana di un fenomeno si sovrappone nei secoli una matrice cristiana.

In Calabria la preparazione domestica del mustazzolo trova diffusione in buona parte grazie ai padri domenicani di Soriano Calabro, nel vibonese, che a partire dal 1500 promuovono l’uso di soggetti tratti dall’iconografia cristiana, basti pensare al classico mustazzolo a forma di pesce, non a caso lo stesso simbolo animale che ispira la forma della mitra papale. Ma al di là del tipo di confessione, nella enigmatica semplicità dei suoi simbolismi si coglie uno degli aspetti più interessanti di questo dolce millenario, quello votivo, dovendosi ravvisare nel suo consumo alimentare l’espressione dell’atto sacrificale, la comunione. Fin dalle origini, finanche la sua cottura era legata all’uso propiziatorio, con la finalità di ottenere un prodotto che avesse una consistenza dura ed un colore brunito che ricordassero le “pinakes”, le tavolette in terracotta che adornavano i santuari greci. A Locri se ne possono ammirare di stupende. Non a caso, il mostacciolo a forma di “S“ da me ripreso in queste chine altro non è che una stilizzazione dell’agatodemone, il serpente protettivo che ritroviamo nelle insegne dei presidi ospedalieri su quel bastone di Asclepio, Dio greco della salute, evocato dal rettile che cambiando pelle rinnova il mondo”.

C’è un’altra cosa che caratterizza l’aere di Luca, l’utilizzo di soggetti veri. La maggior parte delle volte si tratta dei suoi familiari, degli amici più cari. E questa volta non si smentisce Luca. La sorella Valeria e la piccola Scilla Stranges, figlia del suo amico Emanuele, occupano la scena a suggellare la grandezza delle donne in una Calabria che è senza dubbio donna, il passaggio generazionale nel tramandare le tradizioni, la complicità che solo i grandi segreti possono creare.

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