A Catanzaro ‘Anfitrione’: classico dei classici in chiave moderna

In scena al Politeama una ben fatta riscrittura di Sergio Pierattini della commedia di Plauto


di Carmen Loiacono

E’ tutta colpa degli dèi. Qualsiasi cosa possa andare storto nella vita dell’uomo, di sicuro, dietro, c’è lo zampino loro. E’ la soluzione di comodo suggerita dallo stesso Giove per le magagne umane in “Anfitrione” diretto da Filippo Dini, andato in scena ieri sera al Teatro Politeama per la stagione in corso, ed è anche la chiusura scelta dall’autore, Sergio Pierattini, per quella che è una piena riscrittura della commedia di Plauto a cui si ispira: la realtà è quella che vogliamo vedere e spesso gli inganni non sono tali, ma tacitamente accettati da chi li subisce, salvo poi incolparne gli dèi, appunto.

Classica commedia degli equivoci, Anfitrione prende spunto dalla trama dell’opera latina e pur mantenendone inalterato il significato – le dinamiche umane e della società sono sempre uguali – la modernizza, la rende accessibile a tutti, offrendone una versione più sorniona, decisamente ben fatta. Questo Anfitrione è ambientato nel Modenese: il personaggio del titolo (Antonio Catania) è un politico ignorante e rozzo – tutti i personaggi sono ben definiti come da commedia che si rispetti -, sua moglie Alcmena (Barbora Bobulova), è una insegnante di scuole medie sensibile ma frustrata, il suo autista Sosia (Giovanni Esposito) – che in Plauto era il servo – è un sempliciotto con lampi di astuzia che aspira a poco, un posto da valletto al Parlamento, così come sua moglie Bromia (Valeria Angelozzi). Giove, il divino (Gigio Alberti), è autorevole e forse il più incredulo di fronte alla stupidità umana che perde tempo in sciocchezze – i cellulari sempre in mano per esempio -, tralasciando la cosa più importante, l’amore. Certo, quello che il dio intende è soprattutto carnale, ma la sua notte con Alcmena, “rubata” poiché ha le sembianze di suo marito, va ben oltre il semplice tradimento. E lo stesso vale per il suo accompagnatore Mercurio (Valerio Santoro) che si sostituisce a Sosia: entrambi sono, con Pierattini, l’espediente per mettere i personaggi a confronto con il loro io più profondo, sia questa la parte migliore, sia la più oscura.

C’è di più: l’operazione di riscrittura di Anfitrione usa un linguaggio fresco, quasi cabarettistico, con citazioni continue come le canzoni di Pino Daniele, gli inevitabili riferimenti alla politica contemporanea, quando Mercurio minaccia di sparare Sosia di notte nel suo giardino perché la legge glielo permette per esempio, o i tentativi di corruzione dello stesso, con l’offerta del Parco della Vittoria -, sì quello del Monopoli -, e ancora ironiche riflessioni sull’attuale situazione italiana. A un Mercurio che lo respinge da casa propria, infatti, Anfitrione, presto presidente del Consiglio, propone un Ministero a scelta, consigliandogli le Infrastrutture – termine difficile per chi non conosce nemmeno l’uso del congiuntivo –, da preferire alla Cultura, «che te ne fai?», gli dice.

Sono tutti accorgimenti “furbi” che hanno saputo dare agli eppure lunghi dialoghi una freschezza e dinamicità tali da convincere in pieno gli spettatori, sebbene più nella seconda che nella prima parte. Il regista, dal canto suo, ha saputo sfruttare al meglio il testo, la bella scenografia di Laura Benzi e le luci di Pasquale Mari, ma anche l’ottimo cast che aveva a disposizione: a loro, facendoli muovere anche tra le poltrone in platea, ha lasciato la possibilità di interpretare i personaggi portando molto di se stessi, a partire finanche dalle cadenze del parlato, enfatizzando le caratteristiche dei singoli attori, come fossero quelle dei ruoli che stavano portando in scena. E ha funzionato. Perfetta la Bobulova, depositaria dell’aspetto tragico dell’opera, così come Alberti, con il suo sguardo superiore e disgustato per l’umanità, e ancora azzeccati comici Catania ed Esposito: le scene in cui erano presenti entrambi sono state a dir poco esilaranti. Il pubblico, numeroso, ha gradito e salutato con un lungo applauso.