Detenuto e Coronavirus, Camera Penale Catanzaro: ‘superare la centralità delle carceri”

Le proposte in sede di conversione del Cura Italia

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Il Consiglio Direttivo della Camera Penale Cantafora di Catanzaro – si legge in un nota – , quotidianamente impegnato nel monitoraggio delle vicende che riguardano l’avvocatura in questo periodo di emergenza sanitaria, ha inteso licenziare nella seduta di ieri, un documento che riguarda la situazione delle carceri.

A tal proposito, si è avvalso del contributo del proprio Osservatorio carcere brillantemente guidato dall’avv. Orlando Sapia.

Numerosi sono stati gli interventi che hanno riguardato il pianeta carcere visto e considerato che le restrizioni adottate anche nelle case circondariali hanno prodotto una situazione di particolare allarme. Mai come oggi un coro unanime si è levato da più parti per sensibilizzare il Governo ad adottare misure in grado di contenere i contagi evitando il pericolosissimo diffondersi del virus all’interno delle mura carcerarie.

Anche le carceri italiane, infatti,  non sono rimaste immuni dal contagio da coronavirus.

Negli ultimi giorni è aumentato il numero delle persone contagiate dal Covid 19 sia tra i detenuti che tra il personale di servizio. Addirittura si segnala, come già avvenuto nelle case di riposo per anziani, il sorgere di veri e propri focolai: nel carcere di Verona ci sarebbero trenta contagiati tra i detenuti e venti tra gli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria. Lungo tutta la penisola crescono quotidianamente i casi di contagi e si iniziano a contare i primi decessi tra coloro i quali sono reclusi o lavorano negli istituti di pena.

Il Papa, più volte nel corso delle liturgie pasquali, ha preso posizione contro il dramma del sovraffollamento carcerario ed i pericoli che ne derivano, in un contesto di pandemia, sia per chi è recluso che per la società al di fuori delle mura.

Le rappresentanze istituzionali della magistratura[2] e dell’avvocatura hanno espresso la propria preoccupazione in ordine alla concreta possibilità che il carcere possa divenire una bomba epidemiologica in grado di investire l’intera società.

Il governo, tuttavia, nel recente decreto legge, ribattezzato “Cura Italia”, ha dedicato alla vicenda solo due articoli (123 e 124), accogliendo solo in minima parte le proposte provenienti dalla magistratura, dall’avvocatura e dalle associazioni (Antigone, Yairaiha Onlus etc.) che da sempre si occupano delle problematiche della detenzione. In sostanza, si è disposto che nei casi di soggetti con pena o residuo di pena non superiore ai diciotto mesi è possibile godere della misura della detenzione domiciliare attraverso un iter semplificato, specificando, tuttavia, che laddove la pena sia superiore a sei mesi la detenzione domiciliare avrà luogo con le modalità del c.d. braccialetto elettronico. La logica è stata chiaramente quella di favorire la fuoriuscita rapida dagli istituti di coloro i quali, comunque, avrebbero potuto godere di detto beneficio ma in tempi più rapidi, in modo da poter così fronteggiare un’eventuale emergenza sanitaria negli istituti di pena. Altra misura, avente medesima finalità, è la previsione di un’estensione, anche in deroga ai limiti massimi,  delle licenze premio ai semiliberi sino al 30 giugno 2020.

Le misure prese dal governo, in vero, sono poca cosa. Si calcola che coloro i quali ne potranno usufruire non saranno più di seimila, ciò solo nel caso in cui verranno recuperati i migliaia di braccialetti elettronici che, fino a qualche giorno addietro, scarseggiavano al punto tale che la magistratura, di frequente, era impossibilitata a disporre la misura dei domiciliari con il dispositivo elettronico.

Nonostante la pochezza di quanto disposto, che, peraltro, non sarà applicato ai c.d. ostativi, agli autori di maltrattamenti in famiglia e di stalking ed ai detenuti sanzionati disciplinarmente perché coinvolti nella rivolta dei giorni passati, qualcuno ha avuto l’ardire di affermare che ci troviamo dinanzi ad un indulto[3] e si fa così un regalo ai rivoltosi.

Difatti, sebbene le misure adottate siano distanti anni luce dai provvedimenti di clemenza collettiva (amnistia/indulto), sia in campo politico che istituzionale c’è stato chi ha affermato la propria contrarietà al fine di tutelare la certezza della pena.

E’ necessario chiarire, per amor di verità, che la detenzione domiciliare è essa stessa una pena, rientrando nel novero delle misure alternative al carcere previste dalla legge sull’Ordinamento Penitenziario. Non siamo, quindi, dinanzi a nessun indulto.

Inoltre, alcuni esponenti della magistratura italiana hanno più volte ribadito la propria contrarietà ai provvedimenti di clemenza collettiva, arrivando addirittura ad affermare che parole quali amnistia, indulto non dovrebbero esistere in un paese civile. Sempre in tal senso il dott. Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, ha nel corso di una recente trasmissione televisiva sostenuto che, nonostante il numero dei detenuti contagiati sia in costante aumento, non esisterebbe un reale pericolo di esplosione della pandemia anche all’interno delle mura carcerarie, in quanto l’universo penitenziario sarebbe isolato dal resto della società e, pertanto, luogo per sua natura sicuro[4]. Non ci meraviglia quanto detto dal dott. Gratteri, che giova ricordarlo risolverebbe il problema del sovraffollamento costruendo supercarceri in stile americano, quanto il fatto che il procuratore ha sorvolato sul problema concreto senza proporre niente di realmente utile a superare la contingenza.

Orbene, nonostante alcuni possano serbare, coltivare e diffondere opinioni di censura nei riguardi di istituti giuridici quali amnistia e indulto, è bene ricordare che i provvedimenti di clemenza collettiva sono introdotti nell’ordinamento repubblicano dalla Carta Costituzionale che è internazionalmente riconosciuta quale esempio di civiltà giuridica. In relazione all’idea che il carcere possa essere un luogo più sicuro rispetto alla civiltà libera, essa è palesemente smentita dai molteplici contagi che si stanno manifestando negli istituti di pena, tanto che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha, qualche giorno addietro, accolto il ricorso di un detenuto di Vicenza, e disposto che, entro il 14 aprile, il governo italiano riferisca alla Corte su quali siano “le misure preventive specifiche adottate per proteggere il richiedente e gli altri detenuti, volte a ridurre il pericolo di contagio all’interno del carcere”

Invero, in un contesto quale quello attuale, il tentare di minimizzare il dramma del sovraffollamento carcerario, che è già valso all’Italia svariate condanne internazionali da parte della CEDU per violazione dell’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo (divieto di tortura, trattamenti e  pene inumane) e negare la concreta possibilità dell’esplosione di una bomba epidemiologica capace di travolgere tutta la società, è comportamento errato ed esiziale per l’intero consorzio sociale, dal momento che il dramma delle carceri, se non verrà correttamente gestito, si riverserà sull’intera società. Insomma non basta far finta che il problema non sia poi così grave e proporre di risolverlo con la costruzione di città penitenziarie della capienza di 5000 posti ciascuna in stile U.S.A

Non condividiamo tale assunto per diversi motivi, ma uno su tutti spicca: Gli Stati Uniti d’America non sono un modello di sistema penale da seguire. Trattasi di una realtà sociale che ha fatto del profitto il centro intorno al quale tutto gira ed in cui la lotta alle diseguaglianze economiche e alla povertà non rientrano negli obiettivi dell’agenda politica, tant’è che negli ultimi quaranta anni, negli U.S.A., si è realizzato il passaggio dal welfare al sistema carcerario quale momento per la regolazione/gestione della povertà, creando così un sistema penale ipertrofico ed  iperattivo. Uno degli effetti di queste scelte politiche, fortemente ispirate alle teorizzazioni economiche della c.d. scuola di Chicago, è stata la criminalizzazione degli strati di società confinati nella povertà economica e sociale ed il conseguente aumento dei tassi di carcerazione. Attualmente negli U.S.A. si contano quasi sette milioni di persone coinvolte nel circuito penale e di queste oltre due milioni sono effettivamente in prigione[8]: si tratta della più numerosa popolazione penitenziaria al mondo, al secondo posto vi è la Cina che ha una popolazione complessiva oltre quattro volte superiore a quella americana. In sostanza, è stato il trionfo della Zero Tolerance e della creazione di uno Stato minimo nei contenuti sociali e  massimo nell’esercizio dell’uso della forza.

Questa logica negli ultimi decenni ha ispirato le politiche legislative in materia penale/ penitenziaria anche nel nostro Paese, così producendo un’ipertrofia della penalità, causa primigenia dell’aumento vertiginoso della popolazione carceraria e della conseguente tragedia del sovraffollamento, nonostante i tassi di commissione dei reati siano in costante calo da diversi anni.

Anche solo limitando l’analisi agli ultimi anni: si è assistito all’aumento degli edittali delle pene dei delitti contro il patrimonio (furto, rapina, estorsione), già puniti in modo piuttosto severo dal legislatore degli anni 30; si è avuta la reintroduzione di reati, un tempo depenalizzati, quali il divieto di accattonaggio e il blocco stradale; si sono innalzate in modo spropositato i massimali di pena, addirittura sino a sei anni di reclusione, per l’occupazione di edifici ed, infine, continua ad esserci una disciplina in materia di contrasto alla diffusione delle sostanze stupefacenti tra le più severe dell’intera Europa, si pensi al riguardo che la violazione dell’art. 73 co.1 DPR n. 309/90 è punita, nel suo massimale di pena,  fino a venti anni di reclusione quasi quanto un omicidio.

Insomma, i reati diminuiscono, ma le pene si sono allungate ed uscire dal carcere diviene più difficile e richiede più tempo. Ciò perché si è posto al centro della visione politico – legislativa non la sicurezza dei diritti ma un’idea astratta di sicurezza, sempre più distante dai diritti delle persone, ma necessaria per gestire una società attraversata in maniera sempre più consistente dalla povertà. Infatti, negli ultimi decenni in Italia il numero dei poveri e’ aumentato vertiginosamente ed attualmente vi sono oltre cinque milioni di persone in condizione di povertà assoluta.

Nel corso degli ultimi anni il legislatore aveva posto in essere una serie di riforme tese a favorire, da un lato, la fuoriuscita della popolazione carceraria e, dall’altro lato, la possibilità di ricorrere con più facilità a forme di esecuzione penale alternative al carcere. Purtroppo la parte migliore e più innovativa di dette riforme è stata disattesa. Nel 2014 con la legge n. 67 il Parlamento aveva delegato il Governo affinché innovasse il catalogo delle pene di cui all’art. 17 del c.p. ed introducesse la reclusione domiciliare e l’arresto domiciliare tra le pene principali, ma il timore di perdere consenso elettorale ha fatto sì che tale delega decadesse a causa dell’inerzia dell’esecutivo in carica. Similmente è accaduto per la riforma dell’ordinamento penitenziario, anche in questo caso il Parlamento aveva delegato (L. n 103 del 2017) il governo ma la delega è stata realizzata solo in minima parte, così vanificando il grande lavoro fatto nell’ambito dell’innovativa esperienza degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Tale fallimento è stato causato dall’assenza di un reale programma alternativo, così appena si è realizzato il decremento della popolazione detenuta, richiesto dalla CEDU, le tematiche dell’allarme sociale e dell’ossessione securitaria hanno ripreso il sopravvento, facendo divenire lettera morta le deleghe parlamentari.

E’ oggi più che mai necessario, anche in virtù dell’emergenza sanitaria in corso, superare la logica panpenalistica e carcero-centrica che regna incontrastata nel dibattito politico. E’ necessario ripensare le parole che usiamo guardando alla Costituzione in quanto fondamento della nostra società.

Le parole amnistia ed indulto non devono scandalizzare. Si tratta di istituti giuridici di rango costituzionale, il cui utilizzo è stato costante durante tutta la vita dello Stato Italiano sino alla riforma costituzionale dell’art. 79  Cost. fatta nel 1992, durante l’ultima legislatura della c.d. prima Repubblica. In particolare, a seguito di detta riforma l’approvazione di una legge di concessione di detti provvedimenti clemenziali richiede una maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera per ogni singolo articolo, oltre che per la votazione finale. E’ probabilmente l’unico caso in cui è più semplice modificare la fonte normativa, cioè l’art. 79 Cost., che emanare una legge di amnistia o indulto. Difatti, dal 1992 ad oggi si è avuto solo l’indulto del 2006. E’ certamente sintomo di civiltà quantomeno aprire un dibattito sui provvedimenti clemenziali, sulla loro funzione e sulla possibilità di restituirgli una agibilità legislativa che oggi nei fatti è negata.

La riscoperta di tali provvedimenti non si tradurrebbe in un perdono per il reo né tantomeno in una violazione dei diritti della eventuale vittima, ma rappresenterebbe l’utilizzo di strumenti eccezionali in una situazione di oggettiva emergenza. Si tratterebbe di una clemenza per ragioni di giustizia, da un lato tesa ad evitare gli effetti di una desocializzazione conseguente alla drammatica realtà del sovraffollamento carcerario] e dall’altro mirata ad intervenire in un contesto di emergenza sanitaria che potrebbe travolgere prima il carcere e poi il resto della società.

Sempre partendo dalla Costituzione, l’art. 27 dispone che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del reo”. Il legislatore costituente opera il proprio riferimento alle pene, non alla pena e, nell’articolo dedicato alla funzione della pena non fa alcun riferimento al carcere. Già in Costituzione è presente una logica penale non assolutamente carcero centrica, che pone la dignità umana, cioè i diritti umani, quale limite nell’esecuzione della pena e ne sancisce il carattere rieducativo, finalizzato quindi a riaggregare il soggetto condannato nel consorzio sociale. In sostanza, il costituente non ha ritenuto la parola carcere degna o, perlomeno, necessaria alla Costituzione.

In prospettiva, sarebbe necessario prevedere, con maggiore ampiezza di quanto avviene oggi, che la pena possa consistere in privazioni della libertà differenti da quella carceraria, come ad esempio era il caso della reclusione/arresto domiciliare di cui alla L. n. 67 del 2014. Sarebbe opportuno consentire un uso più ampio delle già esistenti misure alternative alla detenzione ed, in particolare, prevedere la possibilità di accesso alla misura dell’affidamento in prova anche in presenza della sola possibilità di svolgere un’attività di volontariato. Ad oggi, sebbene la condizione lavorativa non sia espressamente prevista dalla legge, tendenzialmente le istanze di affidamento ex art 47 O.P. vengono sistematicamente rigettate senza la presenza della prospettiva lavorativa.

Si tratta di due esempi che alleggerirebbero di molto il numero dei detenuti e consentirebbero di potenziare il filone dell’esecuzione penale esterna, dandogli così quell’importanza che un paese civile meriterebbe. Del resto le statistiche sono chiare: la recidiva per chi esce dal carcere tocca quasi il 70 %, mentre scende a meno del 20% per coloro i quali scontano la pena al di fuori delle mura penitenziarie.

Tuttavia, l’emergenza si fa sempre più pressante e il carcere rischia seriamente di divenire una tragedia annunciata ed allora è necessario, qui ed ora, agire rapidamente, accogliendo quelle indicazioni che provengono dai vari corpi sociali (magistratura, avvocatura, mondo accademico) e, quindi, implementare in fase di conversione del D.L. “Cura Italia” le misure ivi previste: innalzare a due anni il limite di pena detentiva eseguibile presso il proprio domicilio, disponendo che tale disciplina si applichi in aggiunta e non in sostituzione di quanto previsto in via ordinaria; rendere facoltativo e non obbligatorio l’uso del braccialetto elettronico; reintrodurre, vista l’emergenza, la liberazione anticipata speciale sino a 75 giorni; prevedere il differimento dell’esecuzione degli ordini di carcerazione per condanne fino a quattro anni a data successiva alla fine dell’emergenza sanitaria.

Insomma, è più che mai necessario liberarsi immediatamente, se non della necessità, per lo meno della centralità del carcere.

Siamo dinanzi ad un bivio ed oggi, per via della attuale crisi sanitaria ed economica, il problema si ripresenta in tutta la sua urgenza. Bisogna scegliere definitivamente verso quale forma di Stato andare: uno Stato che massimizzerà l’utilizzo del sistema penale, implementandolo di nuove fattispecie, continuando ad aumentare gli edittali di pena, rendendo il processo così veloce da smaterializzarlo in nome dell’efficienza, ed, infine, costruirà grandi città penitenziarie in cui stipare i marginali sociali; oppure uno Stato che si impegni nella realizzazione di quel programma che è la nostra Costituzione, garantendo la sicurezza dei diritti e utilizzando il sistema penale in una logica di extrema ratio.

Il Consiglio Direttivo

Camera Penale Cantafora

 

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