Il precariato, i tirocinanti, la dignità calpestata

Storia di una tirocinante raccontata mentre ai tavoli della Cittadella sindacati e Regione cercano soluzioni che sanno di già sentito

Più informazioni su

Come l’idra, il precariato in Calabria è un mostro dalle cento facce. Ognuna etichettata con una sigla, che riporta a una legge: la legge 31, la legge 14, legge 40, la legge 28, la legge 12. Che, a dirle così, uno subito pensa: fatta le legge, trovato il precario. O l’inganno, che fa lo stesso. E poi c’è il bacino attualmente più profondo di tutti, quello dei tirocinanti. Forse per questo, al tavolo che la Regione Calabria, per l’ennesima volta, ha aperto con i sindacati, i tirocinanti sono in fondo alla lista del nutrito ordine del giorno. I tirocinanti. Li chiamano così perché svolgono un tirocinio. Anche se, a dire il vero, qualcuno avanza il sospetto che li chiamano così perché, con loro, su di loro, a mezzo loro, c’è sempre chi tira acqua al proprio mulino. In tempi elettorali, per esempio, quando tutti sono molto facili nelle promesse, in maniera inversamente proporzionale a quanto realizzano una volta eletti. Di cosa parliamo quando parliamo di tirocinanti, lo lasciamo dire a una di loro. Si chiama Antonella Salatino, sposata, tre figli. Quarantatré anni, ha già una lunga storia di precariato da raccontare.

“Faccio parte del bando Giustizia, sono una tirocinante come tutti i colleghi che oggi sono in piazza alla Citadella, chi per la scuola, chi per il Mibact, chi per gli enti locali. In comune abbiamo che siamo tutti disperati.
In regione, noi del settore giustizia siamo circa 650, con tutti gli altri bacini arriviamo a 7000 tirocinanti. Tutti sfruttati legalmente. Uno Stato e una Regione che usano il lavoro in nero. Può esistere una cosa del genere. Eppure, così è. Provengo dalla mobilità in deroga avendo lavorato per un privato, anche lì sfruttata, ho iniziato il tirocinio al tribunale di Lamezia nel 2012, dove, una volta apprese le funzioni basilari, ci hanno messo a lavorare. Aiuto a preparare le udienze, l’archiviazione, l’inserimento di documenti. Lavoriamo, quattro ore al giorno, per 500 euro, non abbiamo diritto alle malattie, non abbiamo contributi. Ma siamo stati formati spendendo soldi della Regione Calabria che sono anche nostri, soldi buttati, senza che a noi vengano riconoscimenti di nessun genere, nemmeno nei concorsi che vanno a fare, perché se fanno selezioni tramite il Centro dell’impiego, non abbiamo nemmeno una riserva di posti. Ho finito il 31 gennaio, da allora sono a casa, ho tre figli. Siamo famiglia neanche monoreddito, adesso zeroreddito, perché anche mio marito si trova nella stessa situazione al Comune di Lamezia Terme, a fare il tecnico per 500 euro che gli danno dopo tre mesi, quando gli uffici sono vuoti, il personale non c’è, sono tutti in pensione. È facile da parte dello Stato utilizzare i lavoratori in nero senza diritti e senza tutele. Loro
– Antonella guarda in alto verso l’attico del Palazzo – quando si siedono ai tavoli e sanno cosa dare da mangiare ai figli, si dovrebbero porre la stesa domanda che mi faccio io: come li mando avanti? E non è giusto. Noi chiediamo il riconoscimento delle nostre competenze e chiediamo che ci venga restituita la dignità, nessuno è autorizzato a togliercela. Puntiamo alla stabilizzazione, promessa da tutti i politici che si sono susseguiti nelle varie elezioni, dove hanno preso impegni, dove hanno chiesto i voti, dove sono state fatte un sacco di promesse. Ora basta, perché uno Stato che legalizza il lavoro in nero non si può sentire. Una Regione che consente il lavoro in nero all’interno dei suoi uffici, dei suoi enti pubblici, non può esistere. L’ultima assicurazione ce l’hanno data nella precedente legislatura e anche in questa attuale. Oggi c’è l’incontro con i sindacati. Noi abbiamo il diritto di sapere cosa dicono di me. Non ho più fiducia. Come posso averne? Un incontro simile ci fu l’anno scorso in campagna elettorale, incontri sia con l’allora assessore Robbe, ma anche con l’attuale assessore Orsomarso, quando anche lui ha preso degli impegni ben precisi: non mi dimenticherò dei tirocinanti, disse, ma a tutt’oggi i tirocinanti che hanno finito il 31 gennaio sono a casa. Noi attenderemo qui fino a quando non ci daranno risposte. Le tende non sono simboliche, noi dormiremo qua, andremo avanti ad oltranza. Devono scendere dal Palazzo e dirci: guarda, tu dopo 10 anni che ho speso soldi, non me ne frega niente se hai o non hai da mangiare, se puoi o non puoi mantenerti la famiglia. Vorrei vedere loro ad andare avanti, senza stipendio o con 500 euro dopo tre-quattro mesi. Intanto ci hanno praticamente imposto un corso di formazione che comunque ci lega per quattro ore al giorno per avere un riconoscimento che noi dovevamo avere già. Il corso è attualmente in svolgimento, lo stiamo seguendo on line, non siamo retribuiti, i retribuiti sono gli enti di formazione, prendono seimila euro a corsista. Fondamentalmente sono corsi di economia aziendale, partita doppia, contabilità, non sono argomenti che tutti hanno possibilità di afferrare, e comunque non si può pretendere che un corsista di 62, 63 anni abbia la stessa capacità e disponibilità ad apprendere di uno di 30. A quell’età uno pensa se mai ad essere accompagnato alla pensione. L’assessore Orsomarso vorrebbe dirottarci verso i privati che ci hanno già sfruttato, portati in mobilità e ridotti in questo stato. Ho l’impressione di tornare indietro. Sono in causa con un privato da 16 anni. Non abbiamo riconoscimento nemmeno di malattia. Due anni fa ho avuto problemi importanti di salute, ho presentato certificati medici, la Regione non mi ha pagato l’ora e quindici minuti di assenza. Si può? SI può ledere così la dignità di una persona?”

No, Antonella, non si può. Anche i sindacati spendono questa parola: dignità, prima di salire dall’assessore. Anche Orsomarso la pronuncerà. Ma non avrà la stessa pienezza, lo stesso graffio.  Nella bozza di documento stilata nella riunione, si dice che l’incontro odierno è “finalizzato al riordino del lavoro calabrese, di chiusura della stagione del precariato pubblico regionale, di apertura di una nuova fase di politiche attive del lavoro, in linea con il fabbisogno del mondo produttivo, al fine di costruire percorsi di lavoro privato, stabile e di qualità”. I sindacati, Cgil Cisl Uil, Ugl, Cisal e Confsal hanno “ribadito la necessità di coinvolgere tutti gli attori interessati, pubblici e privati, alla fuoriuscita dal tirocinio di tutti i soggetti, consapevoli che tutti sono chiamati a dare il loro reale contributo in termini di chiarezza e fattibilità dei percorsi di contrattualizzazione”.

Questo è quanto prodotto dopo quattro re di trattative. In attesa della replica con l’Usb, non ammessa al primo incontro, le tende sono ancora nel piazzale. D’altra parte, attendere da questo deriva. E i tirocinanti, lì, sono. Ad attendere.

Più informazioni su