Il Vescovo Bertolone onora il giudice Livatino: “Martire di giustizia”

Pensavano di averlo ucciso per sempre. Lo hanno consegnato alla vita per l’eternità

Il pensiero domenicale del Vescovo di Catanzaro, Vincenzo Bertolone: 

«Mi aveva parlato altre volte di questo giudice Livatino come di un personaggio, un santocchio, uno che andava sempre in chiesa a pregare. Per evitare di incontrarlo, fece chiudere la porta sul pianerottolo che avevano in comune».

Angelo Siino è passato alle cronache come il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra. Mafioso di caratura, dunque, che una volta divenuto collaboratore di giustizia, vuota il sacco e riferisce anche di Angelo Rosario Livatino. E davanti ai giudici di Caltanissetta, chiamati a giudicare mandanti ed esecutori del delitto del giovane giudice siciliano, fa mettere a verbale le confidenze ricevute da Giuseppe Di Caro, capomafia agrigentino, vicino di appartamento della famiglia Livatino. Nel racconto offerto alla Corte, con l’avversione nutrita nei riguardi di quel magistrato tutto d’un pezzo, sfociata addirittura nella scelta di sbarrare la porta di casa ed utilizzare un altro ingresso “pu ‘nvirillo chiuvu a Livatino”, le radici di un omicidio e, al tempo stesso, di un martirio.

Oggi il giudice siciliano viene proclamato beato, poiché ucciso in odium fidei. Dunque, assassinato non soltanto a ragione dell’ufficio svolto con coerenza ed integrità, ma perché cristiano, e da cristiano impegnato a sostenere le ragioni del Vangelo anche nell’amministrazione della giustizia. «Decidere è scegliere – diceva del resto intervenendo a un convegno su fede e diritto, nel 1986 – e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere che il magistrato può trovare un rapporto con Dio».

Muore, Livatino non solo perché ritenuto giudice severo ed inavvicinabile. «Questo suo essere intransigente – osserva uno dei capi della Stidda – lo collegavamo al suo essere uomo di fede, di chiesa; andava sempre a pregare. Aveva una grande moralità perché era un uomo di fede ed era incorruttibile». Muore, Livatino, perché il suo essere cristiano mette a nudo le fragilità di un potere – quello mafioso e stiddaro – che per essere inattaccabile ha bisogno che nessuno deroghi ai comandi imposti, ammantati di una presunta religiosità, con sfoggio di santi e madonne, per acquisire consenso sociale e far passare l’idea che, in fondo, gli uomini d’onore siano sacerdoti laici, impegnati in opere di bene, come il garantire ordine e sicurezza e, in molti casi, offrire lavoro e sussistenza. Muore, Livatino, nella consapevolezza di tutto ciò, ma senza aver mai ricercato la gloria dell’eroismo: al contrario, come si legge nella sentenza resa nel 1999 dalla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, egli mostra «il coraggio di un uomo semplice che teneva in grandissimo conto il valore della altrui vita, viaggiando senza scorta e affermando essere preferibile l’uccisione di un solo uomo a quella di due o tre carabinieri». E così muore, Angelo Rosario Livatino, la mattina del 21 Settembre 1990: solo, senza scorta, inseguito e finito nella scarpata ai bordi del viadotto Gasena mentre, come ogni giorno, va in Tribunale. Pensavano di averlo ucciso per sempre. Lo hanno consegnato alla vita per l’eternità.