Cinquanta sfumature di incipit

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    Settembre. Arrivi e partenze. C’è chi inizia solo ora le proprie ferie estive (una volta quelle settembrine erano ritenute le vacanze intelligenti) e c’è chi, invece, se ne torna a casa e a lavoro scurito e rilassato proprio in questi giorni. Del resto, una celebre battuta del Trio sui luoghi comuni annoverava proprio giugno e settembre tra i mesi ideali per le vacanze, ed io aggiungerei anche per i matrimoni, dal momento che, solitamente, allo sposalizio segue sempre la luna di miele, che è appunto una vacanza.

    Due miei cari amici sono rientrati in questi giorni dal viaggio di nozze. Meta esotica come va tanto di moda ed equa spartizione dei giorni a disposizione fra itinerari culturali e totale relax in paradisi naturali piegati all’idea occidentale di comfort. In valigia non hanno messo nessuna cartina, pienamente fiduciosi che la guida predisposta dal tour operator li avrebbe scortati senza fallo lungo le tappe stabilite, ma, in compenso, hanno pensato di portarsi dietro un paio di romanzi a testa.

    “Che ve ne farete?”: ho chiesto loro incuriosita.

    “Il volo dura una decina d’ore, e non staremo a guardare sempre film; in più è prevista una settimana di pernottamento fisso presso un resort al mare. Se non leggiamo come passiamo il tempo?!”.

    Sbirciando fra i titoli, ho trovato esclusivamente nuovissime uscite; fanno tutte parte della cosiddetta cinquina di finalisti al Premio Strega, fra cui non ho ancora curiosato, così mi è tornato in mente, quasi profetico, il giudizio impietoso del mio colto amico Danilo. Pur non essendo un addetto ai lavori – anzi, forse proprio per questo – ma volendo comunque manifestare a modo suo tutto il più profondo scetticismo nei confronti dei recenti successi editoriali proclamati tali dai più autorevoli premi letterari nazionali, una volta mi recitò a memoria l’incipit dell’Anna Karenina di Tolstoj: “Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.”. Perla di indiscussa saggezza e di ineguagliata poesia, è vero. Ma il velato messaggio polemico del mio intransigente amico, suonava pressappoco così: “Quando salirà sullo scranno uno scrittore capace di catturare il lettore fin dalle prime righe come fece il grande romanziere russo ottocentesco (e come hanno fatto molti altri del passato), allora mi inchinerò ai verdetti di certe istituzioni pluri blasonate cui si presta fede come fosse il Verbo divino. Nel frattempo, lasciate pure che questi scribacchini vendano le loro copie e godano del loro effimero successo in un tempo che si preannuncia assai più breve del canto di una cicala!”.

    D’accordo, non tutti possono essere Lev Tolstoj, ma non per questo mi sento di buttare fango sulle moderne classifiche dei più venduti o dei meglio criticati (i due elenchi, in effetti, non sempre coincidono; come per i verdetti della giuria tecnica e di quella popolare del Festival di Sanremo).

    Alla vista di quei libri freschi di stampa tra le mani, mi è venuta in mente un’altra situazione in cui, una volta, qualcuno volle ingenuamente schierare passato e presente propendendo per uno sterile si stava meglio quando si stava peggio. Qualche anno fa invitammo a cena un collega del mio compagno e la sua allora fidanzata, rumena trasferitasi in Italia per motivi di studio. Siccome la ragazza era troppo giovane per consentirci di imbastire una seriosa conversazione sulla dittatura di Ceausescu e sulla rivoluzione dell’89 che lo aveva destabilizzato, per non essere banale, non so come, le chiesi che differenza ci fosse tra la nostra religione di stato e il loro cattolicesimo ortodosso. Per tutta risposa, la bella Alina mi disse che loro credevano solo nei santi principali, tipo San Pietro e San Paolo, mentre noi avevamo troppi santi.

    Lì per lì non riuscii a replicare. Forse mi immaginavo un lungo intervento specialistico, come se la nostra ospite dovesse essere un’esperta di questioni teologiche o un’insospettabile fan del dialogo interreligioso inaugurato da Papa Wojtyla. Ammiccai sorridente, continuai a servirle pietanze autoctone finché non convenimmo all’unisono di trattare argomenti forse meno originali ma di certo più inoffensivi.

    Quella sera stessa, però, ripensai alle parole di Alina, e le mie conclusioni solitarie furono: “Abbiamo troppi santi. Ma come?! A me risultava che il processo di canonizzazione che dichiara santo un defunto dura degli anni proprio per esserne strasicuri! E comunque, se davvero la chiesa ortodossa riconoscesse solo i primi santi, vorrebbe dire che la santità non è più possibile ai giorni nostri, il che – praticante o meno – è davvero triste.”. Così come sarebbe davvero triste se non si vendessero più romanzi e nessuno vincesse più premi letterari sol perché ancora non è uscito fuori il nuovo Lev Tolstoj.

    L’esperienza mi suggerisce nuovi percorsi speculativi. Ho cominciato a fare teatro in un momento storico poco favorevole, o meglio: è questo ciò che i veterani mi dicevano per tirarmi su. C’erano stati tempi più proficui. E probabilmente era vero, tant’è che ho smesso presto.

    All’epoca – e forse è ancora così – i teatri che non avevano un cartellone, cioè quelli che non avevano abbonati, non si preoccupavano minimamente del pubblico, giacché non era del ricavato dei biglietti che campavano, ma dell’affitto della sala a chi era disposto a pagare per avere uno spazio dove rappresentare i propri spettacoli (in gergo li chiamavamo, appunto, affittacamere). La responsabilità dell’affluenza degli spettatori toccava dunque alla produzione, la quale, però, spesso non possedeva i mezzi necessari a fare un’adeguata pubblicità, e anche quando li possedeva, raramente raggiungeva gli esiti sperati.

    Se dunque l’affittacamere se ne lavava le mani e la produzione era incapace di fare un’efficace promozione del pubblico, questa benedetta responsabilità del tutto esaurito o dei forni ricadeva automaticamente sugli attori. Ho ricordi molto avvilenti di questa vera e propria violenza psicologica. Alla fine, però, qualcuno dev’essersene pure accorto, tant’è che non potendosi rivalere sugli affittacamere né su se stessi, le piccole produzioni teatrali hanno pensato bene di puntare esclusivamente sugli attori che potevano garantire un certo numero di spettatori a sera.

    Nessuno è indispensabile, ma solo alcuni sono davvero necessari. Gli attori poi – soprattutto quelli teatrali – si sprecano. È l’unica categoria lavorativa disposta ad essere sottopagata – quando non pagata affatto – pur di esserci. Provate a chiedere la stessa cosa a un attrezzista o a un tecnico del suono o della luce!

    Ora, giusto per fare la guastafeste come al mio solito, mi chiedo quanto questo subdolo sistema di compravendita valga anche in campo letterario. Un esordiente nullafacente senza alcun bacino d’utenza pregresso ha forse le stesse possibilità di vendita di, per esempio, un professore universitario? Naturalmente non si può generalizzare: ci sono pure casi editoriali che celano casi letterari, ma anche fenomeni commerciali che celano studiatissime operazioni di marketing. Diciamo che le case editrici, per sopravvivere – o per mantenere uno standard alto di vita – devono dare un colpo al cerchio e uno alla botte.

    “Ai posteri l’ardua sentenza!”: scriveva Alessandro Manzoni. Chi siamo noi per riconoscere un talento contemporaneo meritevole di sorpassare il tempo e rendersi immortale? Come fare a distinguere una storia ben scritta e coinvolgente da un pezzo di letteratura? E del resto quale scrittore, dopo aver deciso di rendere pubblici i propri scritti, si è mai augurato di fare della letteratura piuttosto di vendere il maggior numero di copie possibili?

    L’immortalità. Un altro motivo più o meno inconscio per cui si aspira ad essere pubblicati. In Italia dobbiamo essere davvero in tanti ad avere questa aspirazione!

    L’incipit è importante, certo. Non solo per assicurarsi i lettori, ma ancor prima per assicurarsi di essere quantomeno presi in considerazione da chi dovrà pubblicare il libro in questione. Le proposte che ogni giorno affastellano la cassetta della posta e la casella di posta elettronica delle case editrici è, infatti, a dir poco imbarazzante, quindi meglio risultare pregni fin dall’inizio, perché se lo si comincia ad essere da pagina cinque, l’editore potrebbe essere già passato a visionare un altro scritto, gettando nell’immondizia un futuro, inatteso capolavoro.

    Ad ogni modo, sono certa che quel che il mio intransigente amico voleva dire citando il ben noto incipit del romanzo di Tolstoj, non si riferiva ad una semplice frase d’apertura d’effetto (in questo, rispetto al passato, la pubblicità ci ha istruito a dovere), quanto alla profondità e al valore estetico di un testo riconosciuti tali dalla maggior parte dell’umanità.

    Io ho una teoria: oramai, alla soglia del terzo millennio, è stato scritto davvero di tutto; gli schemi narrativi, infondo, sono sempre gli stessi camuffati da inediti grazie a qualche variante contestualizzata (c’è addirittura chi è riuscito a contarli), quindi, se non si può proprio fare a meno di determinate formule perché ancora funzionano, quanto meno bisognerebbe sforzarsi di narrarle in maniera originale. Ma sono solo teorie, infatti, mentre gli autori vincitori di questa fine estate imperversano dalle vetrine delle librerie italiche con le mitiche fascette postume a sancirne la qualità, in un paese molto lontano dal nostro cui ancora, segretamente tendiamo, ma con cui qualsiasi paragone, nel bene e nel male, è semplicemente ridicolo, sbanca un romanzo (anzi tre, considerato il seguito della storia nelle due uscite successive) la cui autrice e relativa casa editrice se ne fregano altamente di tutti questi sofismi, disquisizioni di valore, intrighi al Ninfeo di Villa Giulia (là dove dal 1947 ha luogo la seconda votazione dei libri concorrenti all’ambito Premio), aneddoti più o meno colti e via dicendo: Cinquanta sfumature di grigio (seguito da Cinquanta sfumature di nero e Cinquanta sfumature di rosso). Trattasi di uno pseudo romanzo erotico che ha per protagonisti due ventenni: una alla sua primissima esperienza; l’altro, di poco più grande, navigato lungo le impervie rotte del sadomaso.

    Sorvolando sulle critiche di addetti ai lavori e non che riempiono pagine e pagine di carta stampata e Internet, una mia amica mi disse che lo aveva trovato un Harmony ben riuscito, ma io non ho mai letto un Harmony – ho sempre avuto ribrezzo di quelle sue copertine – così ho dovuto inforcare gli occhiali ed esaminare di persona di che si trattava.

    Prima di calarmi nella lettura, mi soffermo sulla quarta di copertina dell’edizione italiana, da cui il bel faccione dell’autrice mi sorride con un’espressione un po’ mattacchiona (e chi non riderebbe dopo il successo che ha avuto?). Mi ricorda lo Stregatto di Alice nel paese delle meraviglie nella versione più famosa di Walt Disney.

    Una volta schivato l’ostacolo incipit, che l’autrice non si pone minimamente, entrando fin da subito nella storia con tutte le scarpe, mi rendo presto conto di avere davanti più un copione da soap opera che un romanzo propriamente detto a causa della netta supremazia del discorso diretto (per i puristi del genere, non dovrebbe essere preso in considerazione neanche in minima parte). E anche il lessico – a parte la terminologia audace motivata dalla materia trattata – non si può dire né variegato né appropriato (l’aggettivo divino riferito al livello di gradimento da parte della protagonista di qualcosa di tutt’altro che trascendentale, è a dir poco abusato).

    L’elenco degli stereotipi, poi, è un vero tripudio. Lei è imbranata fino alla macchietta e, nonostante ciò, non si capisce come faccia a laurearsi col massimo dei voti, a trovare il lavoro che le piace e per cui ha studiato a soli ventuno anni (fantascienza, per noi italiani) e a diventare l’oggetto del desiderio di uno che ha ben altri termini di paragone; lui è strafigo, straricco, sessualmente infaticabile e straordinariamente prolisso durante l’amplesso (si vede proprio che è stato scritto da una donna). In generale, comunque, la descrizione psicologica dei personaggi è appena accennata.

    Quanto all’aspetto introspettivo, quando non viene anch’esso espresso sotto forma di battute che l’io narrante formula mentalmente come dentro a un balloon da fumetto, sembra più un riepilogo/parafrasi della puntata precedente (dovesse esserci sfuggito qualcosa). Non c’è dramma, non c’è pathos, non c’è un vero e proprio conflitto tra ciò che è sano (una giocosa relazione sessuale normalmente condivisa) e ciò che è alterato (la prevaricazione da parte di uno dei due sul proprio partner, percepito come giocattolo/sfogo erotico), il che equivale a dire che non c’è verosimiglianza. Anche quando la protagonista riflette per un nanosecondo sulla possibilità che tutto ciò non faccia per lei scoppiando a piangere, sono lacrime da Candy Candy, non certo da monaca di Monza. E anche la parte oscura, a ben vedere, è molto edulcorata, forse proprio per permettere di parteggiare per uno scontato lieto fine, ovvero per la felice seppur improbabile unione dei due laddove, al massimo, ci si aspetterebbe solo una breve e intensa esperienza carnale senza pretese di assolutezza sentimentale.

    Insomma: è una favoletta. Eppure ha venduto milioni di copie, quindi è piaciuto. Perché? Per i tre quarti del romanzo il lettore (o forse sarebbe meglio dire la lettrice) è piacevolmente incalzato ad andare avanti nella lettura per sapere cosa succederà dopo. Badate! Non per sapere come andrà a finire, ma per sapere quale altra fantastica acrobazia ci verrà propinata, perché è essenzialmente di questo che si tratta.

    Molti di noi, a tal proposito, hanno dovuto ricorrere al dizionario per interpretare il significato dei termini di certe tecniche erotiche. E qui è scattata la solita curiosità voyeure, il sogno inconscio di ogni lettore di scoprire quanto ci sia dell’autore nei personaggi e nelle loro azioni. Se anche ci fosse una certa corrispondenza tra realtà e finzione, non sarebbe certo un merito per la scrittrice inglese. E non voglio citare lo stracitato Emilio Salgari che pur non essendo mai stato nei posti esotici che descrive nei suoi romanzi d’avventura, seppe renderli plastici e affascinanti alla stessa stregua di un esperto viaggiatore, perché, dove tutto manca, chiunque è capace di fare una veloce ricerchina su Internet per accaparrarsi le competenze che gli mancano (e ai tempi di Salgari, Internet non c’era).

    Prenderò invece in prestito un aneddoto cinematografico che credo possa valere anche per il processo creativo letterario: si dice che per prepararsi a una scena del Maratoneta, Dustin Ofmann non abbia dormito per due giorni e si sia sottoposto a un estenuante allenamento podistico. Laurence Olivier, coprotagonista nel film, a tal proposito avrebbe commentato: “Ragazzo mio, prova a recitare!”.

    L’ultimo quarto del libro, dove le scene hard si diradano per far posto a quadri fintamente quotidiani – un volo in aliante non è proprio che si faccia tutti i giorni – diventa inspiegabilmente meno interessante. Insomma, rimane un piacevole svago fin tanto che c’è qualcosa di effettivamente piacevole da leggere. Chi osanna tanto questo romanzo non deve averne letti molti, e soprattutto non immagina minimamente cosa riservi il genere erotico. Quanto alle sintesi di autorevoli testate giornalistiche d’oltreoceano che lo salutano come quello che ogni donna vorrebbe, chiedo un referendum per convalidare una simile affermazione. A parte il fatto che il target di proseliti si aggira intorno alla stessa età dei protagonisti – il che la dice lunga in fatto di profondità di giudizio – vorrei proprio sapere quale donna con un po’ di sale in zucca e un briciolo di autostima anelerebbe a incarnare una ragazzetta che non fa altro che ringraziare per qualsiasi cosa e in cui l’apice del dialogo interiore consiste nel preoccuparsi ogni poco di aver offeso o contrariato il proprio uomo.

    Ci sarebbero molte altre cose brutte da dire su questo caso editoriale, ma non voglio dilungarmi oltre; sono partita da Lev Tolstoj e, senza neanche passare dal marchese De Sade, ho già riempito più di quattro cartelle…

    Se voglio salvare qualcosa? Sì: le citazioni musicali. Consiglio a tutti di andare a ricercare i brani seminati qua e là con finto eruditismo.

    Se mi va di leggere il seguito? Non credo: la prossima settimana devo ridipingere casa e poi vorrei ricominciare la palestra.

    Se andrò a vedere il film che ne faranno? Può darsi: per la prima volta la versione cinematografica di un romanzo rischia di risultare migliore del libro che la ha ispirata.

    Mentre mi accingo a riguardare questa mia para recensione, tornano i miei due amici dal viaggio di nozze.

    “Li avete poi letti i libri che vi siete portati dietro?”: chiedo loro prima ancora di informarmi su come sia andata la loro luna di miele.

    “No. Non ne abbiamo avuto il tempo.”.

    Butto fuori un sospiro di sollievo: ancora una volta, per fortuna, la vita vera è stata più lusinghiera della fiction.

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