Un’estranea tra di noi: la differenziata

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    Le scuole non hanno più neanche i soldi per la carta igienica è diventato uno dei tanti tormentoni lamentosi di questi imperanti anni di crisi (dopo l’insuperato Gli italiani non riescono più ad arrivare alla fine del mese).

    Magari fosse solo la carta igienica! Anche la carta bianca comune nel banale formato A4 sembra stia diventando un raro oggetto da preservare, tanto che gli insegnanti sono costretti a fare le fotocopie per i propri alunni per vie private. A malincuore finisco con l’adeguarmi anch’io al nuovo trend e, per risparmiare, decido di avvalermi di una copisteria dai prezzi competitivi. Due piani di cunicoli caldi di infaticabili stampanti professionali.

    Mentre aspetto arrendevole il mio turno, fantastico su quante tonnellate di carta si utilizzano quotidianamente in queste minifabbriche della contraffazione legalizzata.

    Uno dei commessi – forse per spezzare la monotonia del proprio lavoro, forse perché segretamente capace di leggere il pensiero – mi si avvicina e mi rivela in tono confidenziale: – Sa quanto si potrebbe risparmiare se utilizzassimo carta riciclata?

    – Allora perché non lo fate?! – replico d’istinto.

    – Perché in Italia la carta bianca costa di meno. – E si lancia in una tirata da esperto su quanto siano più intelligenti e più virtuosi i norvegesi, che fanno pagare la carta riciclata molto meno di quella nuova, la quale, di fatto, diventa quasi un bene di lusso.

    Il tizio si allontana per fare cassa e qualcuno in fila dietro di me, approfittando della mia distrazione meditativa, mi supera senza smuovermi la minima reazione.

    Non si tratta, quindi, di essere più o meno sensibili alla salvaguardia del proprio territorio piuttosto che del pianeta intero! Qui si tratta di convenienza! Quindi di scelte politiche.

    Come si crea una coscienza nazionale? Sotto i regimi dittatoriali con le cattive; nei paesi democratici con le buone. La Norvegia, come un po’ tutti i paesi del Centro-Nord europeo, non è certo una dittatura, eppure lì ce l’hanno fatta ad adottare stili di vita rispettosi della natura, mentre da noi, che nonostante le baruffe chiozzotte in parlamento e nelle sedi dei principali partiti politici, ci riteniamo ancora una repubblica democratica, certe realtà sembrano pura fantascienza.

    Qualcuno una volta disse che dove non c’è sanzione non c’è legge. Sarà per questo?

    Ma se una cultura va verso una direzione e un’altra in quella opposta, non c’è da chiedersi quale sia l’economia che in quel paese tira più forte la corda dei propri interessi tanto da spuntarla su ogni ragione?

    In Italia la differenziata è una sorta di moda alternativa, un optional, roba da illuminati anticonformisti, da intellettuali e casalinghe di nicchia, un vezzo di chi non ha proprio nient’altro da fare. Per non parlare di quella organizzata su larga scala, da aziende autonome o da interi comuni. Stille d’acqua nel deserto.

    Ma possiamo davvero pensare che una rivoluzione di pensiero e di comportamento così radicale possa avvenire esclusivamente grazie allo spirito caritatevole o alternativo del singolo cittadino o di qualche isolata amministrazione?

    Un mio amico zoologo qualche tempo fa realizzò un laboratorio sul riciclaggio (The Work Factory) per le scuole elementari. Attraverso un personaggio immaginario – Martin il lombrico, capostipite di una famiglia di più di duecento lombrichi – insegnava ai bambini come ottenere dell’humus da scarti organici con cui creare un piccolo orticello nel cortile della scuola.

    Bella idea, certo! Ma per pochi eletti e per poco tempo.

    Perciò mi chiedo: come in ogni indottrinamento di massa cospicuo e durevole, valori come il riciclo, il risparmio, l’uso consapevole dei beni di consumo, dell’acqua, dell’energia e la coscienza dell’impatto a lungo termine che ogni nostra interazione con queste cose ha, non dovrebbero essere trasmesse capillarmente alle umane genti come delle necessità, degli imperativi vitali, delle leggi naturali prima ancora che civili piuttosto che come mere scelte discrezionali prive di effetti considerevoli sul nostro presente e sul futuro planetario?

    Fino a poco tempo fa si poteva vedere in TV una pubblicità progresso sul riciclo degli imballaggi che, se avesse sortito il suo effetto, avrebbe fatto andare in tilt il centralino delle Pagine Bianche da parte di ogni genitore responsabile che ne avesse voluto sapere di più per salvaguardare il futuro del proprio bambino.

    Setting: un bagno di casa dai colori tenui e gli arredi asetticamente chic. Col sottofondo canticchiato a bocca chiusa della celebre ninna nanna di Mozart, una mamma impeccabile, con tanto di chignon a banana anni Sessanta, si accinge a cambiare il proprio bébé sul fasciatoio lanciando ogni volta dietro di sé, con un sorriso di plastica, le confezioni vuote apparentemente inutili dei prodotti appena utilizzati. A manovre ultimate, la telecamera inquadra finalmente il posto misterioso in cui vanno a finire il barattolo del borotalco, la scatola di cartone delle veline, una bottiglia di vetro: nel box giochi del suo stesso bambino.

    Segue la voce fuoricampo che spiega, per chi ancora non lo avesse capito, i danni di una raccolta multi materiale scellerata cui si potrebbe porre rimedio semplicemente separando rifiuti che, in realtà, sono rigenerabili, con una non trascurabile riduzione dell’accumulo di tutto ciò che, altrimenti, finirebbe col costituire una zavorra letale per le generazioni future.

    Dal dire al fare, però, c’è di mezzo il mare. Lo dimostrano non solo le giustificazioni più frequenti che i distratti danno della propria astensione dai dettami del riciclo – non ho i cassonetti sotto casa; tanto si sa che finisce tutto nella stessa discarica; i contenitori vanno ripuliti prima d’essere buttati; gli elettrodomestici e l’olio usato vanno portati alle isole ecologiche e per gettare i mobili e altre cose ingombranti devo pure pagare il trasporto – ma soprattutto la lentezza delle istituzioni e, ancor prima, il tripudio del superfluo che chi architetta le confezioni (packaging) ci ha abituati a ritenere un valore in più. Dai prodotti da forno in cui ogni razione viene confezionata singolarmente per poi essere rimpacchettata insieme alle altre, alle buste da lettera con finestrelle trasparenti di plastica che ne rendono visibile il contenuto prima ancora dell’apertura (quelle delle bollette, tanto per intenderci), è tutto un pluri imballo nei materiali più diversi.

    Perché le case di abbigliamento, le ditte di elettrodomestici, i grandi marchi del design non introducono stabilmente – e non una tantum – all’interno dei propri piani di vendita, delle linee low cost basate sulla rottamazione di vecchie collezioni con la promessa di uno sconto sui nuovi nati?

    Ho fatto un sacco di fotocopie, e nel frattempo s’è fatto buio. Uscendo dalla copisteria scorgo i primi negozianti intenti a portare fuori i sacchi di immondizia della giornata – come già hanno fatto con quelli della carta e del cartone – affinché i camion della nettezza li facciano sparire dalla vista e dalla memoria dei consumatori.

    Un camion per la carta, uno per l’indifferenziata. E la plastica? Non riesco a quantificare i residuati di cellophan e polistirolo di tutti gli imballi scartati alla fine di un giorno di lavoro da un negozio di oggettistica e camuffati da resti organici di spuntini dei dipendenti. E negli uffici? Quante cartucce e toner e lampadine al neon consumate verranno collezionate mensilmente? E nei supermercati? Quanto umido invenduto o scaduto o in procinto di scadere viene dato al macero indiscriminatamente?

    Il fiato bianco e caldo dei miei sospiri evapora mischiandosi all’aria fredda della sera.

    Il giorno dopo vado a scuola con il mio bel fascicolo di fotocopie sotto al braccio e noto con piacere che qualcuno ha messo due cestini sotto alla lavagna. Sul muro, in corrispondenza di uno c’è scritto PLASTICA, per l’altro c’è scritto CARTA. Peccato che anche quest’ultima venga raccolta in un sacco nero di polietilene!

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