TFA, GAE e GI. Scene di ordinaria burocrazia e nuove guerre tra poveri.

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    Chissà a cosa pensava Matteo Renzi quando proponeva riforme sulla base della formula semplificazione uguale crescita! Non certo alla scuola, nonostante ultimamente sia tutto un gran parlare di edilizia scolastica. Lo dimostrano le modalità a dir poco distopiche di inserimento nelle ormai epiche graduatorie di insegnamento, nonché quelle relative all’iscrizione al temutissimo TFA (tirocinio formativo attivo), penultima spiaggia di una pluridecennale sequela di prove leggendarie al termine delle quali si vincerebbe, finalmente, un ruolo da insegnante.

    Quattordici pagine per il modello A1, sedici per il modello A2 e altrettante per il modello A2 / bis. Tutte rigorosamente cartacee. Alla faccia della digitalizzazione!

    Facciamo qualche passo indietro. I famosi concorsi magistrali, che una volta costituivano un passaggio obbligato per entrare nella scuola statale, hanno sfornato più vincitori di quanti fossero i posti effettivamente disponibili. Da ciò la costituzione di elenchi di supplenti che nei decenni si sono radicalmente complicati.

    Ai non addetti ai lavori basti sapere che, ad oggi, le graduatorie permanenti ad esaurimento (GAE per gli aficionados) sono il luogo privilegiato degli abilitati all’insegnamento; titolo, quest’ultimo, conquistato nei modi più camaleontici a seconda del vorticoso avvicendarsi di governi e ministri, con conseguenti scontri per affermare la supremazia di una via sull’altra da parte dei destinatari ultimi. Scontri che, come c’era da aspettarsi, hanno subito rivelato tutta la loro intima condizione di guerra tra poveri. In grosse città come Roma, ad esempio, non è inusuale assistere a scene di quotidiana, volontaria autodeportazione di insegnanti che prendono il treno da Napoli e dintorni anche alle quattro e mezzo del mattino per venire a lavorare nella capitale, con grande disappunto dei colleghi autoctoni, che vedono ingrossarsi sempre di più le già obese fila di una città al collasso.

    Ma il pregiudizio trasversale non finisce qui. Voci di corridoio – non nel senso di dicerie quanto proprio di passaparola tra un’aula e l’altra – sosterrebbero l’esistenza di un diffuso malcostume clientelare secondo cui alcuni candidati pomperebbero a dovere il proprio curriculum corrompendo, alla bisogna, il personale di segreteria qualora si verificassero i legittimi accertamenti dei dichiarati servizi presso quella determinata istituzione scolastica.

    Se c’è gente senza lavoro disposta a pagare qualcuno che dichiari il contrario, vuol dire che il mondo sta davvero andando a gambe all’aria.

    Mentre il sud soffoca e ancora una volta non smentisce la propria ingegnosità disperata e truffaldina, nel profondo nord non si va tanto per il sottile: oltre alla maggiore possibilità di trovare lavoro come supplente, capita che si assuma anche senza abilitazione, quando non addirittura senza laurea (almeno nelle scuole private).

    Ed è già polemica anche nei confronti dei neoabilitati magistrali.

    – Dove iscriverà sua figlia?

    – All’istituto magistrale. Vuol fare la maestra.

    E in quel troncamento della terza persona del verbo già si schiudono davanti ai nostri occhi cartoline sbiadite di irreprensibili santuari di sapienza; una rettitudine cieca, d’altri tempi; divise inamidate da collegiali; la celebre penna rossa di un polveroso personaggio di Libro Cuore.

    Fino a quindici anni fa, finita la terza media, chi voleva fare la maestra (o il maestro) doveva frequentare una scuola superiore specifica. Inizialmente si trattò di un ciclo di studi triennali presso una scuola magistrale per poter insegnare alla scuola materna (oggi dell’infanzia), e di una formazione quadriennale presso un istituto magistrale per avere diritto a lavorare sia alla materna che all’elementare (oggi primaria). Tale titolo includeva la specifica dizione diploma di abilitazione allinsegnamento, da cui, a dispetto della limpidezza linguistica, il grande equivoco. L’articolo 97 della nostra Costituzione recita infatti, al comma 3, che Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge, quindi, col solo titolo abilitante, ai diplomati magistrali non restava che il diritto di esercitare la professione presso le scuole private e/o paritarie.

    Col tempo, però, sono stati erroneamente considerati abilitati solo coloro che avevano superato il concorso magistrale, perdendo quindi ogni diritto di condividere la stessa lista d’attesa (GAE) dove sostavano gli altri abilitati/idonei a lavorare nella scuola statale non appena si fosse liberato un posto.

    Nel 2014, dopo quindici anni di limbo, finalmente i diplomati magistrali (circa ventimila) vengono riconosciuti a tutti gli effetti abilitati. Che peccato che però proprio da quest’anno le graduatorie ad esaurimento siano bloccate e che quindi debbano accontentarsi di scalare in seconda fascia di quelle di istituto!

    Queste ultime, a colpo d’occhio, parrebbero di fatti un po’ più sfigate, giacché le GI sono il ricovero della plebe indistinta dei non abilitati (III fascia) e dei vincitori di SSIS, PAS, TFA e dei neo laureati in discipline formative specifiche (I e II fascia) che non hanno fatto in tempo ad inserirsi nelle GAE e a cui sono riservate supplenze medio lunghe senza un’effettiva prospettiva di ruolo fisso, alias di contratto a tempo indeterminato per quella specifica CDC (classe di concorso).

    Come provvisoria alternativa, ai bulimici delle competenze in attesa di un nuovo concorsone già preannunciato dalla ministra Giannini, non resta che tentare la triplice selezione (preselezione, scritto e orale) al secondo ciclo di uno specifico corso di formazione: l’ennesima forma di abilitazione conosciuta con l’acronimo TFA.

    Se il primo ciclo, svoltosi nel 2012, attirò su di sé tante polemiche – test astrusi, tanti quesiti annullati, programmi sconfinati, costi elevati sia per partecipare alle selezioni che per seguire i corsi – quello di quest’anno non sembra essere da meno. Nel segno della semplificazione renziana, le candidature, questa volta, hanno scelto la modalità on-line. Ma questo è un paese per vecchi… Basta leggere qualche conversazione dei gruppi di autosostegno sorti come funghi sul web, per avvertire lo smarrimento metalinguistico al termine delle manovre di preiscrizione, iscrizione e pagamento presso le università designate dalle regioni (diverse da quelle dove si svolgeranno i test).

    E qualcuno già pensa di prendere questa benedetta abilitazione all’estero. In Spagna questo master di insegnamento costa circa cinquemila euro, si frequenta da casa tramite e-learning (fatta eccezione per gli esami, che si fanno in sede) e si svolge in spagnolo. Mi chiederete dove stia il vantaggio rispetto al nostro TFA… Sarà perché qualsiasi cosa, qui da noi, ha tanto il sapore di un far west travestito da city moderna?

    Anche per quanto riguarda i rinnovi in graduatoria le trafile, le comunicazioni degli organi competenti e le modalità di adesione non contraddicono l’italian style. Puntuali come le notifiche sul telefonino, ridondanti più di una soap opera americana, le news letter dei siti dedicati hanno tormentato per mesi tutta una popolazione di aspiranti allo sbaraglio con pronostici più rischiosi che se fossero stati fatti da un bookmaker. Dai loro banner pubblicitari hanno fatto sfavillare corsi e corsetti con cui il plurititolato si aggiudicherebbe centesimi di punto che gli farebbero salutare il sorpassato con un precario (anche quello!) gesto dell’ombrello. E non hanno certo risparmiato gocce di saggezza linkando pagine e pagine di istruzioni per la compilazione delle domande cartacee!

    Già. Perché nonostante questo surplus di indottrinamento, grazie ad una personalissima concezione nostrana di semplificazione, gli obbligatori moduli di iscrizione sono stati redatti nel peggiore burocratese possibile. Non stupirà, pertanto, se sedicenti, impropri o pluridecorati insegnanti abbiano scelto, per compilarli, di mettersi umilmente in coda come tanti analfabeti alla grande mensa dei sindacati.

    – Quando uscirà il modello B (ultimo step questa volta telematico per esprimere le scuole in cui essere chiamati a supplire)?

    – Chiedi al sindacalista!

    – Non so se ho fatto bene il calcolo dei giorni lavorati…

    – Fattelo fare dal sindacalista!

    Gli utenti sono talmente tanti e i casi sempre più cumulabili in FAQ, che le consulenze vengono ormai ottimizzate considerando piccoli gruppi alla volta, previa iscrizione annuale alla modica cifra di una trentina d’euro. Tenuto conto che l’allarme dovrebbe spegnersi a luglio, fate un po’ voi le opportune considerazioni al vetriolo!

    Così, quella che potrebbe essere una semplice, banalissima autocompilazione di un modulo espresso in lingua italiana, diventa un pericoloso, serissimo gioco enigmistico di cui gran parte degli interessati non è disposto a prendersi la piena responsabilità.

    Da una stima del Miur, gli iscritti al TFA quest’anno ammonterebbero a 147mila. Tra di loro, tanti professionisti che all’insegnamento non ci avevano e non ci avrebbero mai pensato se la crisi non avesse dato una brutta piega al loro standard lavorativo e/o alle loro aspettative future. Quindi si rimettono sui libri. Avvocati, architetti, nutrizionisti, biologi, ricercatori, musicisti, giornalisti.

    E in tutto ciò nessuno ha finora parlato seriamente di loro: gli alunni. E quando se ne parla – guarda caso ad ogni nuova nomina al Ministero dell’Istruzione – non si può che smascherare all’istante il carattere di propaganda politica che ha ogni più avveniristica proposta; non ultima, quella di estendere l’insegnamento della storia dell’arte a tutte le scuole di grado superiore. Ma se siamo il paese che spende di meno per l’arte? Vogliono farci credere d’essersi accorti tutt’a un tratto che detenere quell’80% mondiale di patrimonio artistico è un privilegio che va meritato e mantenuto?

    Mettiamola così: per tutti coloro che ancora pensano che in Italia fare l’insegnante sia una pacchia in virtù di quegli invidiatissimi tre mesi – che ormai sono diventati due – di vacanze estive, sarà utile tirare fuori un rapporto diffuso dall’Ocse l’anno scorso sulla retribuzione media dei docenti italiani, che li pone al diciassettesimo posto in Europa su ventitre paesi presi in esame; se a questo si sommano il perenne precariato, le condizioni scandalose degli edifici e, non ultimi, i dubbi metodi di reclutamento del personale educativo, appare chiaro come tale professione abbia perso molto del suo valore agli occhi di chi si affaccia per la prima volta al mondo del lavoro, e ciò vale sia per quelli che avevano mire più utilitaristiche (non si è sempre detto che è il mestiere ideale per le donne che vogliano conciliare famiglia e lavoro?) sia per i superstiti delle motivazioni più alte (qualcosa che ha vagamente a che fare col concetto di missione).

     

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