L’INTERVISTA – Mogol ,domani al Politeama, spiega le ‘emozioni’

Ascolterete molte canzoni che sono note e che canta tanto anche il pubblico, perché ovunque andiamo le cantano tutti, come un grande coro

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    di Carmen Loiacono

     

    Domani sera salirà sul palco del Teatro Politeama per l’ultimo appuntamento con la musica dal vivo del Festival d’autunno 2019. A Catanzaro negli ultimi anni, a dire la verità, Mogol lo si è visto spesso, con le attività del Cet, la Scuola di Toscolano che ha fondato e che sforna di continuo talenti – «I nostri sono tutti bravi» ha modo di dire, e non lo dice per spacconeria, quanto come dato di fatto -, ma questa volta sarà diverso. Domani sera Mogol salirà sul palco per partecipare in prima persona a un omaggio allo storico duo di autori che formava insieme a Battisti, raccontando la genesi di quelle canzoni che scrisse perché Lucio le cantasse. “Mi ritorni in mente”, “Il mio canto libero”, “Acqua azzurra, acqua chiara”, “I giardini di marzo”, tra le tante, rivivranno grazie a Gianmarco Carroccia e all’Orchestra sinfonica che lo accompagnerà.  Un progetto che a Mogol piace molto, perché Carroccia è uno che «canta veramente da fuoriclasse, per lui la gente va matta perché trasmette emozioni», dice di lui, beccato proprio mentre sta per mettersi in viaggio “verso sud”.

    Il titolo della serata del resto è proprio “Emozioni” – pure titolo di uno tra i più celebri brani targati Mogol-Battisti -, e di sicuro non ne mancheranno: «Ascolterete molte canzoni che sono note e che canta tanto anche il pubblico, perché ovunque andiamo le cantano tutti, come un grande coro. Io ne spiegherò alcune: perché sono state scritte, cosa intendevo dire, qualcosa che interessa molto alla gente perché le conosce a memoria e così scopre delle cose nuove», anticipa.

    E’ infatti rimasto inalterato il fascino di queste canzoni senza età che conquistano tutte le generazioni, anche oggi che, proprio lo scorso 29 settembre – titolo di un altro fortunato successo del duo -, sono disponibili in streaming: «E’ stato un grandissimo successo – commenta -, ma lì c’è un repertorio talmente importante che i ragazzi quando cominciano a capirne un paio di brani, ci prendono gusto ». Ciò significa che la qualità quando c’è passa, a tutte le età: «Assorbire cultura di qualità vuol dire diventare persone di qualità. C’è del potenziale buono nelle nuove tecnologie».

    Anche nel permettere a chiunque di fare musica? «E’ chiaro che in quel senso non possiamo avere cose di straordinario valore, o per lo meno che siano rare, se pensano di poterle fare tutti. Per fare la qualità ci vogliono le scuole, bisogna studiare – è categorico -. Non è che in due minuti e mezzo, fanno una canzone su Instagram e salta fuori chissà che cosa, insomma, c’è un po’ di tutto ora in giro, ma quello che c’è è quasi tutto dedicato ai ragazzini, non è che le canzoni che arrivano dal web arrivano alle persone adulte. E’ difficile. Anche perché parlano un linguaggio che non è il loro».

    L’ambiente in cui si cresce però influisce. Mogol è figlio d’autore, e il figlio di Mogol pure: «C’è da dire che mio padre era un editore, bravissimo, era anche musicista, molto preparato peraltro, oltre a essere direttore europeo della Ricordi, aveva fatto una grande carriera,  ma era un editore. Molti brani risultano a sua firma, ma è una questione di cavilli burocratici poiché all’epoca gli editori compravano i testi. Lui, di suo pugno, fece  una cosa sola, una versione de “La rosa tatuata”», ci tiene a precisare. Allo stesso tempo, però, non si prende alcun merito per il successo del figlio Alfredo, in arte Cheope: « Le racconto solo un aneddoto che le dirà tutto. Quest’estate sono andato al Premio dell’estate, non sapevo neanche chi partecipasse. Ho scoperto solo dopo che cinque brani li aveva fatti mio figlio». Che poi si è pure aggiudicato il Premio Siae per “Jambo”, scritto con Takagi, Ketra e Federica Abbate.

    Come fa a dire che non c’è qualcosa nei geni, allora? «E’ sempre una questione di applicazione, sensibilità e lavoro. Che poi danno luogo ad automatismi che permettono i risultati. Mio figlio è anche un grandissimo pittore, noto in tutto il mondo. Tra l’altro guadagna pure meglio, come pittore». Gli automatismi, un concetto caro Mogol, un vero punto cardine anche per la sua produzione: «Io ascolto la musica e cerco di dire cosa dice la musica, non ho mai in testa un soggetto – è la sua semplice spiegazione -. Il soggetto arriva quando ascolto la musica, cerco di capire cosa sta dicendo, e mi vengono fuori dei soggetti che sono adatti alla canzone. Ogni frase deve essere con il senso della musica, se è una frase intima devo scrivere una frase intima, è una cosa che riguarda l’automatismo, che riescono tutti ad avere. Quando dico che abbiamo automatismi straordinari, è così. Pensi alla dettatura, per esempio: se le detto qualcosa non pensa a cosa scrive, ce l’ha come forma automatica. Tenga presente che questa cosa eccezionale, noi possiamo farla crescere in modo inimmaginabile in tutte le arti. E’ così. Ci vogliono diecimila ore di lavoro serio, però».

    Ci sarà stato però un momento in cui ha compreso il suo stesso potenziale. «Adesso. Sgarbi e Pistoletto hanno detto cose straordinarie su di me, mi fa piacere. Mi hanno definito come il più grande poeta del Novecento. Ho avuto questi complimenti, fantastici, sulla mia opera, e ne sono molto contento».

    E’ mai rimasto senza parole? Ci pensa un po’, poi di affidare la risposta a una canzone, sua e di Gianni Bella, “L’arcobaleno” (pubblicata da Adriano Celentano in “Io non so parlar d’amore” del 1999): “Il mio discorso più bello e più denso esprime con il silenzio il suo senso”.

     

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