Mgff: Marco D’Amore, essere napoletano è “uno state of mind”

A Catanzaro già da qualche giorno – ieri sera ha presentato insieme al “socio” di scrittura, Francesco Ghiaccio, “Dolcissime”

«Sarei stato napoletano anche se fossi nato a Timbuctu». A dirlo di sé è stato Marco D’Amore, casertano di nascita, spiegando come sia «uno state of mind», un modo di essere, l’essere napoletano. L’occasione è stata questa mattina alla presentazione del suo primo film da regista, “L’immortale” che sarà proiettato questa sera in concorso al diciassettesimo Magna Graecia film festival.

A Catanzaro già da qualche giorno – ieri sera ha presentato insieme al “socio” di scrittura, Francesco Ghiaccio, “Dolcissime” -, D’Amore non ha richiesto troppo l’intervento di Antonio Capellupo per introdurre il proprio film, rivelando, vero fiume in piena, tanta voglia di raccontarsi. A partire dalla serie tv “Gomorra” che non lo ha tenuto a battesimo, ma di certo gli ha dato una notorietà non indifferente, che non deve però influenzare nei giudizi su “L’immortale”, poiché con questo film D’Amore vuole puntare a fare un salto, una sorta di ponte tra la serialità e il cinema in sala.

«Il rischio più forte era di pensare di poter spostare il pubblico dal salotto di casa in sala – ha ammesso -. Eppure è stata una scommessa vinta, grazie anche alla lungimiranza di Nicola Maccanico e Riccardo Tozzi», rispettivamente ceo di Vision Distribution e fondatore di Cattleya, che hanno permesso la realizzazione del progetto. Non si tratta di uno spin-off, un prequel o simili, «è un progetto unico – ha tenuto a precisare -, è un racconto cinematografico, ma con una grammatica differente da quella di Gomorra».

Il film racconta infatti la formazione e i tempi attuali di Ciro Di Marzio, il personaggio che D’Amore interpreta nella serie televisiva – «La stesura della sceneggiatura risale a prima ancora che finisse la terza stagione» ha detto -, ma non è lineare come Gomorra, ci sono molti flashback e anche per le riprese sono state fatte delle scelte ben precise (macchina a mano o a spalla per la serie, steadicam per il film). Nel lungometraggio queste decisioni si traducono nell’emotività del personaggio, che nasce nel suo passato e che, nel presente raccontato, è impossibile, in una terra come la Lettonia. Il tempo che fu è quello di Ciro bambino, interpretato dal piccolo Giuseppe Aiello: «Un vero talento – ha affermato D’Amore -. Con la sua serietà , la sua dignità, quando gli chiesi un aggettivo con cui descriversi, al casting, disse che era “buono”, che per lui, di Scampìa, è una dichiarazione». Già, il quartiere dove si nasce, che sembra pregiudicare ogni futuro: «E’ una questione di opportunità. Io e Ciro Di Marzio siamo coetanei – ha spiegato l’attore e regista -, con la differenza che io ho potuto studiare, andare fuori, viaggiare, lui no».