Sei ragazzi, un pallone, un ragioniere e l’arte in centro a Catanzaro

Scene di vita vissuta, di pomeriggi estivi in una via del centro storico. La curiosità di giovanissimi, le partitelle tre contro tre. Una installazione come spettatrice

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    di Lello Nisticò

    Arte e Città. Bello. Ti riempie i polmoni di aria sottile, colta. Ti prende la mente con onde calme e calde. Pensi a quella volta che sei andato agli Uffizi. O anche a quando hai seguito Alberto Angela e hai detto: però. Arte e Città. Che bella cosa. Cammini con la testa fra le nuvole, allunghi il passo perché non vuoi perdere il finale del quiz sul primo, scansi con abilità e nonchalance una cacca di cane, e all’improvviso eccola là, l’in-sta-lla-zio-ne. Le installazioni sono una cosa simpatica. Portano l’arte a livello strada. Tolgono l’imbarazzo da galleria, quell’entrare con circospezione, la posa di assumere un’aria più intelligente e compunta dell’usuale. L’installazione è come il samovar da salotto, solo più grande, solo che se lo urti non cade. Anzi, solitamente è ben robusta. Piantata per terra con due bulloni.

    La sorpresa li ha colti sul fatto. Quando Christian più per sconforto che per stizza dà una spinta al quarto posteriore della bestia di sinistra, il gruppo scultoreo anodizzato si sposta di qualche centimetro.  

    – «Ma allora si muove» – butta lì Gaetano detto Nino, come Indiana Jones davanti all’Arca perduta.

    – «Come a Michelangelo ccu Mosè» – azzarda Alessio, Alex per gli amici.

    – «Ma che dici – fa Igor – non era Mosè, era n’atru».

    Gli altri, Massimiliano detto Massi e Sebastiano detto Sebi, i quali fino a quel momento hanno palleggiato svogliatamente sul bordo esterno della piazzetta di Sant’Angelo, si avvicinano presi da rinnovata adrenalina: – «Raga’, spostiamolo».

    E, saggiato prima il peso sollevando la piattaforma larga poco più di un metro, poi caricandosi a vicenda con gli occhi bagnati di sudore ed eccitazione, prendono la scultura e la portano a bordo piazza, accanto a una delle panchine di legno e pietra vicino alla strada, lascito del piano Urban che qualche anno fa ha rivestito di finto antico il vecchio autentico del centro cittadino.

    Era successo qualche giorno prima. Tre operai del Comune con panza d’ordinanza eccetto uno chiamato “u Lampu”, guidati da uno con la camicia bianca abbottonata ai polsi che sembrava preciso un assessore con naso d’aquila e capelli alla Teddy Reno, avevano scaricato da un moto ape un voluminoso qualcosa incerottato in cellophane e polistirolo. Lo avevano poggiato per terra, trasportato al centro della piazzetta, misurato con gli occhi l’equidistanza delle diagonali sul diametro. Infine, avevano liberato il “coso” dalle coperture. Ne erano venuti fuori due bestie che erano cani, ma con un muso strano che non ringhiava né abbaiava né faceva le feste, se mai il muso di un cane è capace di fare insieme tutte queste cose. Era l’installazione chiamata “Branco”, opera del 2014 in fusione di alluminio di Paolo Grassino, artista torinese in piena maturità, che usa immettere note di artificio su strutture reali, per lo più figure del mondo animale o vegetale, o soltanto oggetti della produzione umana di serie. Insieme a una decina di opere contemporanee di altri artisti, costituisce il bagaglio di Arte Città, temporanea collezione collettanea dislocata in diversi slarghi di Catanzaro, idea venuta e finanziata dalla Camera di Commercio sposata da  Fondazione Guglielmo e dal Comune. Quest’ultimo al solito mette a disposizione lo spazio e il patrocinio gratuito. Sic transit gloria mundi. Non c’entra niente ma suona bene.

    I sei, che ogni pomeriggio da quando è finita la scuola – tutti promossi eccetto uno che non citiamo per la privacy – giocano una partita tre contro tre con portiere volante, di peso prendono l’opera e la portano come i barellieri il campione che si è fatto male  al bordo dello slargo per liberare il campo da gioco, pensando di non nuocere a niente e a nessuno, anche perché non rompono niente e nessuno li sta a guardare.

    Eccetto il ragioniere che abita al primo piano della casa difronte, che guarda dietro le serrande e bestemmia tutto il pomeriggio perché il tum tum della palla non lo fa dormire come vorrebbe. Appena vede il trasloco non autorizzato, il ragioniere,  tira su l’avvolgibile : «Ohèee, non vi permettete che chiamo i vigili. Chissa è n’opera d’arta. Si a rumpiti o a ruvinati, passastuvu i guai vostri. Vui e i genitori vostri cchi invecia ma vi tenanu a la casa, vi mandanu strati strati ma faciti chiassu da matina a la sira. Mi capiscistuvu, non vu rupetu cchiù. Aiu u telefoninu già ‘nte mani…».

    I ragazzi, pensando alle case loro, alle eventualità non remote di ritorsioni contro la loro libertà pomeridiana, e anche perché i vigili urbani nonostante tutto incutono ancora timore bianco residuo della divisa di una volta, riportano indietro il santo. Ricollocano il Branco al centro della piazza con mille precauzioni, mentre il ragioniere ritira soddisfatto la testa nel carapace del suo soggiorno con vista strada. Poi, sostano pensosi sulla panchina a nord in leggera ascesa rispetto al piano stradale, a rimirare l’arte dopo avere invano tentato di metterla da parte. Guardano i due cani di laminato anodino, nella stessa direttrice su cui si erge la stele ad Antonio Lombardi servo di Dio. Intercedi tu. Guardando e mirando, è Sebi che scuote il gruppo:

    • «Raga’, e giochiamo lo stesso. Vuol dire che ogni volta che il pallone urta un cane, è come quando fa sponda col muro. Se è involontario, si continua a giocare, se uno lo fa apposta, è fuori». 
    • «Bella, Sebù… È comu a li scommessi, si gioca con l’handicap. Iamu, ià, ca s’inda jiu u sula…». Massimiliano, dopo questa perla di saggezza, s’alza, tira un calcio al muro di fronte. Gli altri, non si sa come, sono già schierati all’attacco, o in difesa, dipende dai punti di vista.

    I sei ragazzi continueranno a giocare per la restante parte del pomeriggio. Ogni tanto si fermano, lasciano passare chi attraversa il campo per entrare o uscire a casa, nei portoncini di sempre oppure nel più recente palazzo di Proto, che se lo vedi da qui non sembra niente, ma da Carlo V è una muraglia cinese con vista sul ponte Morandi. Poi riprendono. Corrono, gridano, cadono, si rialzano, bisticciano. I normali contrattempi del vivere insieme. La vita comunque. Occorrerebbe ringraziarli, invece di minacciarli. Riportano indietro l’orologio dei ricordi, di palle di stoffa legate con la corda. Di rumore di auto che arriva dietro il curvone, e ferma il gioco prima che sbuchi in doppia debraiata. Ringraziarli, invece di ostacolare il loro inno alla vita. C’è da divertirsi anche senza stare con gli occhi fissi su uno schermo da pochi pollici. Tra il blu dello smart e il verde di un campo, la differenza salta agli occhi. Nino scarta e va via. Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette.

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