L’INTERVENTO- Prescrizione, nota a margine del convegno di Catanzaro

Il punto di vista del penalista Nunzio Raimondi 

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    di Nunzio Raimondi*

    Malauguratamente,a causa di un non differibile impegno professionale,quantunque invitato come uditore,non ho potuto partecipare all’importante tavola rotonda svoltasi ieri a Catanzaro per iniziativa della locale Camera Penale sul tema della riforma della prescrizione.Ma ne leggo resoconti scritti e video sul web i quali forniscono,per quanto ciò sia possibile,un quadro dei contenuti trattati nell’evento.E leggo pure,grazie ad una preziosissima comunicazione inviata a noi soci dall’ottimo Segretario della Camera Penale catanzarese,di una citazione da parte del Presidente dell’UCPI,l’Avvocato Gian Domenico Caiazza,di quanto ha detto,in questo evento,il Procuratore di Catanzaro, dottor Nicola Gratteri.

    Riporto,di quest’ultimo discorso il passaggio essenziale,disponibile del resto anche in video sul web,per gli amatori del Gratteri pensiero:

    “Ho più volte detto che il problema non è la prescrizione.La prescrizione è un problema a valle,vuol dire non risolvere i problemi della giustizia.Un legislatore o uno statista deve porsi un’altra domanda:per quale motivo i processi,i fascicoli rimangono fermi 5-6 anni negli armadi dei pubblici ministeri e 4-5 anni negli armadi dei giudici.Questa è la mamma di tutte le domande. Nel momento in cui si risolve questo problema a monte poi non parleremmo più di prescrizione”.Il Presidente Caiazza,utilizza,a fortiori, l’argomento utilizzato dal Procuratore Gratteri,per sostenere che “ se perfino uno dei magistrati più lontani dal punto di vista degli avvocati si esprime in questo modo,vorrà il Ministro Bonafede comprendere che si è avviato su una strada non solo vuotamente propagandistica,ma soprattutto controproducente e pericolosa?”

    Anche il Presidente della locale Camera Penale,l’Avvocato Ermenegildo Massimo Scuteri,si è detto giustamente orgoglioso del successo dell’iniziativa ed anche dell’”approdo” cui è giunto il dottor Gratteri,quasi che dallo stesso sia venuto un implicito riconoscimento della fondatezza della battaglia combattuta dall’Unione su questo tema.

    Sennonché la posizione del dottor Gratteri sul punto è un po’ più articolata ed a me pare non vada commentata senza approfondirne le ragioni.

    Queste ragioni le traggo dalla Relazione del 2014 (non una novità quindi) della Commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta,anche patrimoniale,alla criminalità organizzata,istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e presieduta dal dottor Nicola Gratteri.

    In questa Relazione,la quale già prevedeva -giova ricordarlo perché dalle dichiarazioni di ieri del dott.Gratteri sembrerebbe siano state interpretate in senso opposto…- la cessazione della prescrizione dopo la sentenza emessa nel primo grado di giudizio (peraltro analogamente a quanto previsto nel sistema penale tedesco),si” riconosceva che la definitiva cessazione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado crea il rischio di un allungamento dei tempi del processo,nei gradi successivi…e si faceva opportunamente carico del problema spostandolo in altra sede – quella dei rimedi compensativi per l’irragionevole durata del processo – così come avviene, tra l’altro, proprio in Germania” (a ricordarlo è stato il prof. Gian Luigi Gatta in un suo articolo del 5.11.2018 pubblicato su Diritto Penale Contemporaneo,dal titolo “Prescrizoone bloccata dopo il primo grado:una proposta di riforma improvvisa ma non del tutto improvvisata”,nel quale il cattedratico milanese faceva riferimento al pensiero sul punto del prof. Francesco Viganò,oggi giudice costituzionale).

    Per ben comprendere il senso della proposta della “Commissione Gratteri”,occorre riportare almeno uno stralcio del documento,attraverso il quale sarà possibile trarre qualche minima riflessione anche in ordine a ciò di cui si è discusso ieri a Catanzaro:“si è dunque ritenuto di recepire dall’esperienza tedesca e spagnola il rimedio della riduzione della pena per l’imputato ritenuto colpevole e condannato, che abbia tuttavia subito un pregiudizio legato alla eccessiva durata del procedimento penale. In tali ipotesi il processo rappresenta già in sé una sofferenza, che deve essere dunque dedotta – in fase esecutiva – dalla pena ritenuta di giustizia, non diversamente dalla logica secondo cui il periodo trascorso in custodia cautelare viene considerato come pre-sofferto da dedurre dalla pena eseguibile (è significativo, in proposito, che la giurisprudenza tedesca abbia introdotto in via pretoria il rimedio in questione, ben prima della sua consacrazione legislativa, proprio attraverso l’applicazione analogica della norma sul pre-sofferto in custodia cautelare). Un simile rimedio, d’altra parte, non è ormai estraneo nemmeno all’ordinamento italiano, essendo stato recentemente adottato il d.l. n. 92 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 117 del 2014, contenente previsioni volte al ristoro del pregiudizio subito dal detenuto o internato in conseguenza del sovraffollamento carcerario, o comunque di trattamenti contrari all’art. 3 della Convenzione europea. La logica è affine: le condizioni inumane o degradanti della detenzione costituiscono un surplus indebito di sofferenza rispetto a quella normalmente inerente alla pena privativa della libertà, e debbono pertanto essere compensate con una riduzione del tempo complessivo che il condannato dovrà trascorrere in carcere. La soluzione prescelta è quella di affidare al giudice dell’esecuzione il compito di dedurre dalla pena inflitta dal giudice di cognizione una quota proporzionale all’entità del pregiudizio subito. A tal fine si è prevista l’introduzione di un nuovo art. 670-bis c.p.p., volto a disciplinare questo particolare incidente di esecuzione, sì da consentire al giudice – su istanza del condannato – di rideterminare l’entità della pena eseguibile, secondo coefficienti indicati dalla norma medesima, con una tecnica mutuata dal d.l. n. 92 del 2014 citato. I criteri sulla base dei quali il giudice dell’esecuzione dovrà valutare se e in che misura sussista una violazione del diritto alla ragionevole durata del processo non possono, d’altra parte, che essere quelli indicati dalla legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), a loro volta tratti dai criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di art. 6 § 1 CEDU. Il rimedio compensatorio previsto è, in effetti, parallelo e alternativo rispetto a quello di natura pecuniaria previsto dalla legge Pinto, al quale coerentemente il condannato non avrà la possibilità di accedere – salvo che nell’ipotesi eccezionale in cui la riduzione di pena cui avrebbe diritto sia addirittura superiore alla pena inflitta. Il meccanismo così individuato consentirà allo Stato non trascurabili risparmi sul fronte degli indennizzi, nonché sul fronte dell’alleggerimento conseguente dei costi legati alla detenzione del condannato, assicurando al contempo a quest’ultimo un pieno ristoro per il suo diritto violato, in conformità alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di Strasburgo (che ha sempre considerato in linea con le esigenze convenzionali il meccanismo della riduzione di pena previsto nell’ordinamento tedesco)” (Relazione della Commissione l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta,anche patrimoniale,alla criminalità organizzata,istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri,pag.17 e ss.).

    Vediamo di sintetizzare,quindi:si al blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado ma con rimedi compensativi non pecuniari per l’eccessiva durata del processo.

    Una soluzione senz’altro innovativa ma non in linea con la ratio dell’istituto della prescrizione.

    Infatti,noi penalisti sembriamo in questo caso caduti in un “tranello” tipico della nostra epoca:piegare gli istituti del diritto penale alle emergenze del processo,in questo caso alla sua irragionevole durata.

    Anche noi,infatti,tendiamo ad dispiegare argomenti sul tema partendo dal tempo necessario per punire (in questa “primavera fescennina” di istanze biecamente punitive) e non anche su altri tradizionali parametri, tipici dell’istituto della prescrizione.

    Ma il tempo necessario per punire non è sovrapponibile al tempo necessario per processare:siamo in ambiti diversi,regolati da principi diversi.

    La lentezza dei processi è un tema che va affrontato alla luce del principio costituzionale della ragionevole durata,mentre l’istituto della prescrizione,se ancorato a questo principio, può facilmente essere baypassato attraverso rimedi compensativi financo “non pecuniari” (in modo che lo Stato non abbia nemmeno il problema di indennizzare per la sofferenza inflitta al cittadino…).proprio come proposto,sulla base dell’esperienza tedesca e spagnola,dalla Commissione Gratteri.

    Il problema qui è tutto un altro,dunque: ed è quello di un “utilizzo patologico della prescrizione come farmaco emergenziale per curare la lentezza del processo” (G.L.Gatta, ibidem).

    La nostra battaglia di giuristi dovrebbe essere, quindi, quella di preservare e riaffermare le  ragioni di fondo dell’istituto della previsione legale di un “tempo dell’oblio”.Ossia quelle che si riconnettono alla GIUSTIFICAZIONE DELLA PENA dopo che siano passati tanti anni dalla commissione del reato.E,sopratutto,quelle legate all’enorme difficoltà di RICOSTRUZIONE PROBATORIA DEL FATTO, tanto con riferimento all’inutilità dell’esercizio della pretesa punitiva dello Stato mediante un’azione che quasi certamente non porterà al risultato,quanto per il pregiudizio che un processo che si svolga dopo tanti anni dalla commissione del fatto possa recare a chi deve difendersi.

    E forse è anche il caso di precisare che il processo di appello è un giudizio di merito,secondo Salvatore Satta, perfino l’unico giudizio di merito,poiché se il giudice di appello confermerà la sentenza di primo grado,quest’ultima vivrà per la conferma da parte del giudice dell’impugnazione;se, invece,la Corte di Appello riformerà la sentenza di primo grado,essa morirà per far rimanere in vita soltanto la sentenza di appello.

    La cessazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado relegherebbe,quindi, “l’unico giudice del merito” (secondo la felice espressione del Maestro dell’azione) ad un accertamento del fatto da compiersi, in appello, sia pure nei limiti della devoluzione, sine die.

    Certo,il tema dell’accelerazione dei processi merita di essere affrontato in modo complessivo (a mio avviso evitando di confrontarsi sul piano del “di chi è la colpa…”,mediante il ricorso a statistiche spesso ballerine) ma cogliendo la ratio degli istituti senza confonderla o traendola da principi altri o,peggio,semplificando oltremodo  i problemi mediante il ricorso a soluzioni tecnologiche apertamente violative delle garanzie come, ad esempio, certe “scorciatoie informatiche”.

    *Avvocato cassazionista; Professore a contratto di Genesi e dinamiche dell’Organizzazione Criminale nell’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.

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