‘U figghiu’, la storia di Saro alTeatro del Grillo

Saro, pazzerello del paese, mette in subbuglio l’intera comunità impossessandosi della corona di spine della statua di Gesù, in chiesa

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    di Carmen Loiacono

    E’ Pasqua. Saro, il pazzerello del paese, mette in subbuglio l’intera comunità impossessandosi della corona di spine della statua di Gesù, in chiesa. La Cunfrunta viene sospesa, finché Saro non restituirà la corona. Prende spunto da una vicenda realmente accaduta per avvolgersi nelle pieghe dell’animo umano, “U figghiu”, lo spettacolo in lingua scritto e diretto da Saverio Tavano, andato in scena con una consueta doppia recita al Teatro Del Grillo di Soverato. Per entrare nel vivo, infatti, il cartellone diretto da Claudio Rombolà ha puntato sulla prima regionale dell’opera di Tavano per il Nastro di Moebius che lo scorso giugno ha vinto ad Ascoli nella rassegna Teatri del Sacro, e, manco a dirlo, ha centrato il colpo, registrando il tutto esaurito e una pioggia di applausi convinti a fine serata.

    La storia di Saro – un Francesco Gallelli che ha oramai spiccato il volo -, è in realtà il delicato racconto del rapporto con sua madre Concetta – una sempre splendida Anna Maria De Luca -, e di come possa essere tanto profondo questo legame, quanto inutili le “tradizioni” della gente. Sì, perché Saro è un povero cristo nel vero senso del termine. E le corone di spine paiono, per Tavano, essere quelle presenti in ogni famiglia, in maniera diversa, più o meno sentita, ma non per questo meno importanti di altre. Anzi, è questa corona che rende Saro ancora più puro agli occhi di Concetta e di tutti gli spettatori, ridimensionando il dramma che dà il via allo scompiglio a una risata: spetta a Nino, il padre di Saro interpretato da Fabrizio Pugliese, delineare i contorni di questo dialogo di affetti, attraverso il paradosso della sua ostinazione, uniformato alla volontà popolare.

    “Non s’è mai visto”, ripete nel corso della messinscena, “Non s’è mai visto”. Le ripetizioni, del resto, ne “U figghiu” alimentano il vortice in cui serafica sta la madre, contro ogni pregiudizio e ipocrisia: il reiterare più che i concetti, i gesti, è un metodo comunicativo di Saro che addirittura sfida ogni scioglilingua con una rapidità di espressione che disarma, tra l’altro per la concretezza di quanto dice (Gallelli ha perfettamente superato la prova non perdendo un solo colpo), e che fa da contraltare a quanto affermano le voci fuori scena dei concittadini – che gliene dicono “cristianamente” contro di ogni -, e dello stesso padre. Per la realizzazione scenica, Saverio Tavano ha scelto una linea essenziale, basata, manco a dirlo, sui simboli: sul palco ci sono quelli religiosi, ovviamente, ma soprattutto quelli teatrali che rimandano ai primi. C’è il sudario, c’è il sangue (di Cristo), la flagellazione, ma ci sono pure il balcone da cui Saro, che si è barricato in casa lasciando fuori finanche i genitori, si affaccia per ribadire che no, la corona non la restituirà. Tutti questi in realtà sono elementi come un lenzuolo, dei pomodori, una trave, una sedia. E tanti bui. Molto bella, poi, la scena conclusiva, con la mini Cunfrunta di Nino e Concetta e un Saro euforico, che sembra uscita da un disco di Capossela.

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