La necessità di esserci e farsi sentire
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Siamo quelli parcheggiati nei centro commerciali, fruitori di una letteratura commerciale, di musica commerciale, di cinema commerciale.
Siamo quello che i nostri genitori erano agli occhi dei propri eppure loro hanno fatto il ’68, eppure loro hanno il lavoro fisso, eppure loro si lamentano a ragion veduta.
Eppure.
Eppure ovunque nel mondo si scende in piazza mentre qui, nei bar italiani, continua ad esserci quel fastidioso chiacchiericcio di chi pane sotto i denti ne ha poco, ma ancora resiste e quindi non rinuncia a parlare.
Parlano i nostri politici che si sboccano e si sbracciano a suon di riforme, sgravi fiscali, incentivi per le imprese mentre a meno di due mesi dall’Expo le reti televisive documentano strade dissestate, spreco di denaro pubblico, quartieri fatiscenti, nella città che dovrà essere il nostro biglietto da visita mondiale
Parlano i ben pensanti dei salotti televisivi, giocando a fare pronostici su chi sia il responsabile delle barbarie olandesi a Roma, invece di ammettere che, se qualcuno si è permesso di venir a dettar legge a casa nostra, è anche colpa loro.
Colpa delle istituzioni certo, ma anche di la domenica pomeriggio si improvvisa opinionista e, pur di ricevere qualche applauso in più, veicola un’immagine frivola e ridicola dell’Italia, da tempo considerata il paese dei balocchi da chi vuole delinquere e bivaccare.
Se mi chiedessero di pensare a come mi vedo tra dieci anni, risponderei che preferisco vedere come va la prossima settimana e il prossimo mese.
Non si tratta di aver perso le speranze, di non avere ambizione o estro. Si tratta di essere realisti.
E sarà anche vero che dobbiamo prenderci lo spazio che ci spetta, che il futuro è nostro ma di questa filosofia spicciola ne abbiam piene le tasche: non basta dirci che siamo assenti per invogliarci a non esserlo.
Non basta ed io non so cosa servirebbe.
Magari l’esempio.
Ed a pensarci bene, quello già scarseggia.