Come contenere l’epidemia (di colera) tra prevenzione, igiene, quarantene e vaccini

Le pratiche di sanità pubblica nella Calabria dell’Ottocento in una mostra all’Archivio di Stato. Il punto della direttrice Spadafora sulla nuova sede

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“Poiché è risaputo oggidì che un buon metodo di cura a tempo debito iniziato spesso decida dell’avvenire dell’infermo e nessuno osa dubitare dei saggi consigli dell’igiene che se no garantisce dal contagio sicuramente lo previene”. Questo precetto, contenuto nella Prima Istruzione popolare del Supremo Magistrato di Salute “Intorno al Cholera Morbus” stampata in proprio dalla Stamperia dell’Intendenza di Catanzaro nel 1849, sembra uscito, adeguato alla retorica del tempo, dalla bocca dei tanti virologi che oggi cercano di indirizzare un popolo un po’ riluttante alle buone pratiche anti coronavirus. Il colera, il “morbo asiatico” come venne rubricato all’epoca – anche qui lampanti le supposte analogie con il “morbo cinese” secondo Trump – fu causa nel XIX secolo di pandemie ricorrenti in Europa, di cui ben sei epidemie raggiunsero l’Italia: 1835-1837, 1849, 1854-1855, 1865-1867, 1884-1886 e 1893. Di come l’allora fragile sistema sanitario pubblico cercasse di arginare le diverse ondate epidemiche si trovano tracce nella bella esposizione “Sanità pubblica, diffusione e controllo delle epidemie nel XIX secolo nella Calabria Ultra Seconda” allestita, nell’ambito della rassegna “Domenica di carta”, all’Archivio di Stato di Catanzaro. Il materiale esposto è stato ricavato dal Fondo Prefettura, serie Sanità Pubblica, che contiene i documenti originali dei rapporti e delle corrispondenze intrattenute dalle Intendenze di Monteleone (oggi Vibo Valentia) e Catanzaro e gli organi centrali della Sanità pubblica, prima borbonica e poi sabauda e, tra le Intendenze e i municipi, presidi territoriali dello Stato.

Non ci fu solo colera in quei decenni per altro cruciali per le vicende storiche pre e post unitarie. Un rapporto municipale dell’anno 1842, “porta a conoscenza dell’Intendente che la maggior parte dei ragazzi del comune di Nicastro particolarmente di età di 2 anni in giù sono attaccati da una tosse convulsiva che fino al corso di anni 6 vi si sviluppa, e ha iniziato a far vedere la sua ferocia in modo tale che si vede ogni perire qualche bambino”. “Ma racconta la direttrice dell’Archivio, Maria Spadafora – ci sono testimonianze di altre malattie, intercorrenti, difterite, vaiolo, rabbia: un documento ci parla dell’abbattimento di un numero considerevole di cani randagi per prevenire la diffusione della rabbia soprattutto in bambini e ragazzi. Abbiamo testimonianze mediche e statistiche, come l’elenco degli esercenti delle professioni sanitarie del 1884 della Intendenza di Monteleone, di quanti esercitassero professioni legate alla sanità, medici e farmacisti, con le statistiche dei malati, della diffusione delle malattie, dei mezzi impiegati per combatterle. Si ricava una particolare attenzione per le zone rurali, per le case dei contadini sperdute nelle campagne, forse per la consapevolezza delle precarie condizioni igieniche e come venivano disinfettate con il gas sulfureo, zolfo in sostanza, l’unica arma all’epoca disponibile per la disinfestazione degli ambienti chiusi”.
Ma anche le città avevano i loro problemi: basti pensare a quanta attenzione veniva posta verso le case di tolleranza a Catanzaro, che erano diverse, come normare le case per tenere a bada la diffusione della sifilide e le sue conseguenze rilevanti sulla salute pubblica.
Numerose anche le testimonianze scritte sulle disposizioni di contumacia e quarantena nelle zone marine, come d’altra parte si comprende pensando che l’istituto della quarantena fu introdotto dalla Repubblica di Venezia proprio per arginare le epidemie viaggianti via mare: per evitare il contagio si vietava alle persone di altre regioni e Stati di arrivare in Calabria. Oggi parliamo di cluster e zone rosse. Nel 1832 l’Intendenza di Monteleone imponeva la quarantena alla “barca di patron Stefano Andriolo proveniente da Messina”, così come una circolare del 1837 proveniente da Napoli del Supremo magistrato di salute comunica le disposizioni sulla contumacia delle navi provenienti dall’Algeria, mentre quelle provenienti dalla Francia ne sono esentati.  Invece, in un rapporto del 1837 proveniente da Pizzo non si riesce a individuare la malattia “causa della morte del marinaio sulla barca del patron Crescenzo Loffredo”.

Sono decenni, quelli dell’Ottocento, nei quali la scienza medica esce dai meandri delle supposizioni parascientifiche e similfilosofiche per approdare sul terreno delle sperimentazioni cliniche e delle eziologie biologiche delle epidemie, con la scoperta dei batteri e la preparazione e l’uso dei primi vaccini. Così
in un’ordinanza del 1835 dell’Intendenza di Catanzaro.
viene disposto che” i dottori Sorbillo e Bucarelli si rechino nel comune di Zambrone a proprie spese” per eseguire la vaccinazione contro il vaiolo”. Sono i primi tentativi di organizzare un’efficace rete di profilassi e di cura quanto possibile diffusa nei territori delle province. Così nel “Cholera Morbus”, un prontuario edito dal ministro Santangelo a Napoli nel luglio 1835 trasmesso all’Intendenza di Calabria Ultra II, stampato in proprio dalla Stamperia dell’Intendenza, si legge dei “trattamenti sanitari, vigilanza sui contrabbandi, farmacie e medicinali nei Comuni, metodi curativi, nettezza degli abitati e salubrità delle campagne, locali pubblici in veduta per ospedali, approvigionamenti da fare”. Anche la Chiesa si dà da fare: in un faldone dell’arcivescovato di Nicotera e Tropea, agosto 1835, l’arcivescovo di Tropea comunica all’Intendente di avere diffuso tra i parroci della diocesi l’ordinanza che contiene disposizioni per il contenimento del morbo del colera.

Insomma, reperti di interesse storico immerso nella più quotidiana delle contemporaneità, come visivamente suggerito dalla bardatura in mascherina di tutti i presenti alla mostra. Compresa Maria Spadafora, la direttrice, che continua ad esporre i tanti pezzi pregiati di cui si compone l’enorme Archivio di Stato di Catanzaro, compresa la sezione di Lamezia Terme che, sottolinea, “ha materiale documentario di sua pertinenza. Non è che il materiale è a Lamezia perché c’è un problema qua. No, a Lamezia Terme c’è una sezione distaccata, come succede ovunque, per servire la fruizione diretta e prossimale del materiale documentario che attiene al territorio di Lamezia. Obbedendo agli obiettivi statutari degli Archivi che principalmente sono la tutela e la fruizione dei documenti pubblici”. Altra storia è l’attesa per la nuova sede dell’Archivio in via di ultimazione e, sin spera, di consegna. “Siamo naturalmente interessati – dice la dottoressa Spadafora – e attendiamo con grande interesse il trasferimento nella nuova sede di via Millelli, ma non abbiamo contezza sui tempi in quanto non siamo la stazione appaltante. Comunque sappiamo che il dottor Patamia (direttore del segretariato regionale del Mibact, ndr) si sta parecchio impegnando per l’ultimazione dell’ter burocratico e autorizzatorio, anche in relazione al rischio geologico del sito, su cui pare ci siano ampie rassicurazioni. È chiaro che i nuovi spazi aprono nuove prospettive per le quali ci stiamo preparando con interesse, soprattutto per risolvere la collocazione del deposito documentale attualmente diviso dagli uffici, anche se a pochi passi, allocato com’è nel palazzo di fronte, occupato dal comando provinciale della Guardia di Finanza”.

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