Covid Catanzaro 2020-2022-Il nuovo volto della Sanità e la nuova vita di chi la popola

Chi entra nei reparti Covid esce dopo ore zuppo di sudore perché le tute fanno perdere oltre un chilo e ha solo voglia di parlare

Ricorda perfettamente la data il dottore Lucio Cosco, primario del reparto di MalatTie infettive e responsabile dell’area Covid dell’Ospedale Pugliese che in questi due anni è stato uno dei principali protagonisti sempre sul fronte caldo dell’epidemia. Il 4 marzo “prima ancora che fosse dichiarato il primo lockdown la Calabria ha avuto il suo primo caso”.
Tutto è cambiato. Il mondo è cambiato dall’arrivo della pandemia, ma certamente dalla prima emergenza al secondo anno ad oggi, molto è cambiato. “L’anno scorso eravamo in un vero e proprio incubo – dice Lucio Cosco – venivano ricoverate quasi 10/12 persone al giorno. Sicuramente il vaccino ha modificato le cose tanto. Quest’anno, anche se l’impatto è stato notevole lo abbiamo potuto gestire meglio”.

Ricorderemo tutti i reparti al collasso e pieni solo di pazienti Covid. Oggi le cose sono diverse. “Nel mio reparto – sottolinea Cosco – ci sono anche pazienti con altre patologie che solo occasionalmente sono risultate positive al tampone”.

Lucio Cosco

Ci sono voluti due anni per avere le linee guida dalla Regione Calabria, l’emergenza ha reso difficile ogni genere di comunicazione, il Commissariamento della Sanità ha complicato ancora di più le cose “ma – specifica il direttore del reparto – noi già da due anni applicavamo le linee guida che ci hanno salvato e hanno salvato tante persone, anche se non tutti, per ridurre la degenza media, i posti disponibili per i pazienti che stavano poco bene, infatti nel nostro ospedale non si sono mai viste file come in altri ospedali per l’accesso ai reparti, siamo stati molto flessibili”. Un modo coraggioso di affrontare la malattia che specie nei primi tempi, quando nessuno la conosceva, quando spaventava, quando nessuno sapeva, almeno i profani, cosa fosse un indice di contagiosità in termini tecnici che molto diverso è dall’indice di letalità e che ha fatto la differenza poi nella gestione territoriale, quel modo di approcciare al virus Covid19 ha reso i nostri sanitari non meno diversi, non meno eroi di chi sin dall’inizio ha preso sberle dal Coronavirus in Lombardia.

“Il mio approccio verso gli altri – continua Cosco – è cambiato totalmente. Siamo limitati nella nostra socialità. Questa malattia sarà endemica e dovremo affrontare la sua presenza costante e questo ci porterà probabilmente a fare un vaccino ogni anno” anche se non “si deve chiamare semplice influenza”.
Ogni giorno qualche miracolo per la guarigione, ma anche qualche perdita per chi il Covid non lo ha superato, in due anni di pandemia si può parlare di debolezze? “Sicuramente ci sono state debolezze, ovviamente. Però io voglio mettere l’accento su alcune cose.

Noi non abbiamo avuto il dramma che c’è stato al nord, non abbiamo mai avuto una vera carenza di sistemi di protezione, che ci sono sempre stati. Questo è evidenziato dal fatto che non ci sono stati medici contagiati, medici e infermieri deceduti. Abbiamo potuto contare su un sistema che ha funzionato. Forse siamo stati carenti sull’aspetto organizzativo, ma abbiamo supplito eventuali deficit in questo modo. Non ci siamo accorti di eventuali difficoltà. Già dopo quindici/venti giorni abbiamo avuto la tac dedicata ai nostri pazienti. Il sistema della nostra azienda quindi ha funzionato”.

Il Pugliese e l’equipe del dottore Cosco nella prima ondata ha anche salvato due pazienti provenienti dalle zone più colpite dalla pandemia. “Il successo è importante, certo, ma soprattutto abbiamo dimostrato che nella nostra regione le cose non vanno così male come viene raccontato ogni giorno”.

Le conclusioni del suo intervento Lucio Cosco le dedica al suo personale che definisce “eccezionale sotto tutti i punti di vista, della preparazione, della volontà. Questo ha portato al successo quello che abbiamo fatto. Senza di loro non so se ci saremmo riusciti. Medico, infermieristico e Oss. Sono state persone eccezionali. Il mio pensiero, infine, va a chi non c’è più”.

Policlinico

Il Covid e il pericolo delle Malattie infettive invisibili

“Sono due anni”. Covid. Due anni di stress emotivo, di aperture e chiusure. Di lutti non vissuti e di persone care non accompagnate e non salutate nell’ultimo attimo di vita. Bambini con traumi psicologici che solo ora iniziamo ad emergere nel primo anno di scuola primaria al primo distacco dalla famiglia. È stata una guerra sociale e psicologica ai danni delle popolazioni più fragili, combattuta a suon di immagini di camion militari che trasportano bare lontano dai centri delle città, pazienti intubati pronati che a stento riuscivano a respirare e sirene di ambulanze che in continuazione risuonavano in tv, anche durante la pubblicità. “Tutto è iniziato due anni fa”. Carlo Torti, Direttore dell’Unità Operativa di Malattie Infettive e responsabile del reparto covid al Policlinico universitario Mater Domini, scandisce il tempo. “All’inizio – spiega il professore – si è notata una profonda impreparazione del Sistema sanitario dovuta alla mancanza del piano pandemico ed anche ad una dimenticanza delle malattie infettive soprattutto per il loro aspetto gestionale in riferimento ad epidemie di cui non si aveva traccia nella memoria dei medici che operavano sul territorio. Per questo si è avvertito lo sconcerto nei confronti di questa epidemia che si stentava addirittura a credere che potesse estendersi così rapidamente”.

Qualcuno pensava che in Calabria non sarebbe arrivata. “Non solo è arrivata – racconta Torti – ci ha anche travolti”. Torti ricorda la casa di riposo Domus Aurea di Chiaravalle Centrale, che è stata la prima protagonista con pazienti contagiati, dove scoppiò il primo focolaio calabrese. La maggior parte degli ospiti della Rsa arrivarono al Policlinico.
“Da lì diverse ondate, ora spero siamo alla fine della quarta. Le caratteristiche dei pazienti sono state diverse in ciascuna ondata. Prima erano i pazienti della casa di riposo, poi mano mano che questa epidemia ha interessato la popolazione generale, i pazienti più fragili, anziani, i non vaccinati, poi dall’avvento della vaccinazione è rimasta la costante dei fragili, immunocompromessi che non rispondono ai vaccini, ma soprattutto i più gravi sono coloro che non sono stati vaccinati o che pur avendo ricevuto alcune dosi non hanno il ciclo completo. Quindi dobbiamo ambire alle tre dosi per tutti”.

Gli anni della pandemia hanno consentito di far emergere le problematiche principali. “Il primo problema è quello di intercettare precocemente i pazienti fragili che non rispondono alla vaccinazione. Il secondo problema è quello di non ridurre l’attenzione nei confronti del virus, riducendo le protezioni. Il problema emergente è quello che riguarda i pazienti che non sono più caratterizzati dall’avere problemi di ordine respiratorio, ma perché pur avendo l’infezione, presentano altre patologie di specializzazioni che hanno poco a che vedere con l’infettivologia o con la pneumologia, per cui è chiaro che bisogna avere all’interno degli ospedali dei doppio percorsi con stanze dedicate ai pazienti covid in ogni reparto per non perdere la continuità di cura”.
La questione, però, ha nel tempo assunto un ritardo. “Fin dall’inizio ci sono stati ritardi – specifica Torti – e i suoi effetti sono visibili. Negli ospedali, infatti, si notano dei piccoli focolai che sono segnalati un po’ ovunque”.

Per Torti bisogna concentrarsi sulle persone fragili e immunocompromesse “perché proprio attraverso il loro sistema immunitario, come è successo con Omicron, il virus continuerà a vivere e a mutare. Per questo abbiamo istituito il centro di Villa Bianca”.

Il professore Torti non dimentica neanche i pazienti che sono guariti dal Covid e che portano addosso le conseguenze di una malattia terribile. I segni non solo fisici, ma anche psicologici che per lui vanno seguiti e sostenuti anche ora che sono a casa, da personale specializzato che con la fine dell’emergenza sanitaria rischia di tornare a casa.
“Da questa tragedia dobbiamo capitalizzare qualcosa, non solo insegnamenti teorici. Strutture riaperte per il Coronavirus, che devono essere devolute sempre ai pazienti con questi problemi collegati al Covid. Il personale che è stato reclutato, non si deve ritirare, come le truppe che vanno in guerra, altrimenti lasciamo spazio al nemico. Dovremmo stabilizzarlo perché così noi manteniamo anche quel tesoro di competenze che queste persone hanno acquisito sul campo. Sarebbe un tradimento morale nei loro confronti liquidarle. Questi giovani che si sono specializzati devono essere assunti altrimenti pagherà il prezzo la gente comune. Non possiamo fare la figura che mandiamo i pazienti all’ospedale Spallanzani di Roma”.

Carlo Torti
Carlo Torti

Carlo Torti guardando al prossimo futuro ricorda anche le altre malattie infettive “dimenticate” per il Covid. I reparti di Malattie infettive si sono completamente annullati, inesistenti durante questi due anni di pandemia e questo per malattie che si trasmettono e grave. “Già oggi abbiamo delle pandemie che abbiamo sotto gli occhi, ma che a causa del covid abbiamo dimenticato: l’Hiv, la tubercolosi. In questi due anni, con le malattie infettive dedicate al Covid questi pazienti con malattie infettive come la meningite, il programma di eradicazione dell’epatite C sul territorio dove sono finite? Certamente non sono scomparsi, hanno continuato la loro strada in questi 2 anni, si saranno trasmesse e quindi da qui a breve, non parlo della zoonosi che ci sarà tra chissà quanti anni, ma sicuramente noi assisteremo ad un effetto boomerang di queste altre malattie infettive che pur presenti sono state sottostimate perché non avevamo posto e hanno fatto la loro strada come trasmissione e dobbiamo preparaci ad accoglierli”.

Il policlinico che nel corso dei due anni trascorsi di pandemia da Sars-Cov2 ha fatto moltissimo ha ricoverato più di 400 pazienti senza contare la rianimazione, non ha mai bloccato il day-hospital e l’ambulatorio dei pazienti non covid e ha ricoverato pazienti da tutta la Calabria con tubercolosi, hiv, un caso di malaria. “Abbiamo offerto un servizio – sottolinea Torti – a 360 gradi.
I pazienti ricoverati qui non provengono solo dalla provincia di Catanzaro. Abbiamo cercato di servire tutta la Calabria, ma come? Con una sola unità ospedaliera che è stato necessario dedicare al mantenimento delle attività ambulatoriali e di day hospital per i pazienti non COVID o post-COVID e con personale giovane e con personale giovane, arrivato da noi prima della specializzazione, che ora hanno un contratto a tempo determinato che finirà. Poi abbiamo il personale universitario che deve all’assistenza metà del suo tempo orario. Uno, che sono io, l’ordinario e due associati. Un problema che riguarda anche infermieri e Oss. Come si fa ad andare avanti quando l’emergenza finirà? La risposta è che bisognerà chiudere se vanno via tutti. Ovviamente è una scelta di politica sanitaria di cui le istituzioni, se la faranno, dovranno perdersi le loro responsabilità, perché sarà una roba tosta per tutta la Calabria”.

La speranza è che l’unità operativa venga stabilizzata così com’è, altrimenti il personale andrà via dove troverà posti a tempo indeterminato, e la Calabria resterà sempre fanalino di coda.
Capitolo No Vax e reparti pieni soprattutto di pazienti non vaccinati il professore Torti è molto chiaro al riguardo: “A noi si presentano malati e non no vax. Quindi sul loro atteggiamento noi dobbiamo sospendere ogni giudizio. Non è sempre facile perché c’è anche il dispiacere nei loro confronti di dire ‘Cavolo se si fosse vaccinato probabilmente non avrebbe tutti questi problemi’, però non è una cosa che dobbiamo rivelare ai pazienti né negli atteggiamenti, né nelle parole perché sono malati come gli altri.

Lo sforzo di guarirli è maggiore, ma non di meno deve essere fatto in modo non giudicante. A noi non deve importarci la causa che li ha portati sul letto, ma il fatto che ci sono, come ci sono e cosa possiamo fare per aiutarli. Certamente in un’ottica di Sanità pubblica il fatto di non vaccinarsi è un pericolo per se stesso e per gli altri, ma al letto del malato non deve arrivare. Ogni paziente deve avere la tranquillità di poter guarire. Certo dispiace che questi pazienti guariscano con maggior fatica o addirittura possano morire, ma questa frustrazione non deve arrivare al paziente. Però quando si parla alla popolazione di Sanità pubblica bisogna dirlo che ancora tante persone non siano vaccinate con la terza dose perché lì non c’è lo stress di sentirsi giudicati come i malati”.

Francesca Serapide
Generico marzo 2022

Del vissuto con i colleghi e con tutta l’equipe Covid, ma anche con tutti i pazienti ha parlato Francesca Serapide. “Eravamo appena entrati in scuola di specializzazione o quasi – racconta Francesca – e non avevamo mai vissuto una emergenza anche perché non abbiamo un pronto soccorso qui e ci siamo trovati ad affrontare un’emergenza non avendone mai vista o vissuta una, ma con delle responsabilità che non erano da specializzando. Siamo stati giorno e notte in ospedale. Abbiamo colmato le mancanze del pronto soccorso, da un lato, dall’altro ci siamo sentiti sì circondati da affetto, ma molte volte proprio soli perché un’isola all’interno del policlinico”. Il blocco Covid è completamente isolato. Anche noi per raggiungere l’ufficio dove è stata realizzata l’intervista, abbiamo dovuto, a differenza della prima ondata, passare da un lato all’altro del policlinico salendo e scendendo perché, naturalmente, è impossibile accedere alla zona degenza, anche solo vedere un’infermiere vestita con tutto quello che è necessaria staccare dal turno fa intuire quello che può rappresentare quell’isola e quanto ci si possa sentire veramente isolati dal resto del mondo e dal resto dell’ospedale.

Tutto questo si vive nel racconto di Francesca, la dottoressa Serapide, che non nasconde la maggiore facilità della prima ondata e l’aumentare della pesantezza della situazione via via che il Covid diventava sempre più letale anche in Calabria. “Quando abbiamo iniziato a vedere persone che ti parlavano e poi all’improvviso ti morivano davanti senza che tu neanche te ne accorgessi questo è stato molto pesante dal punto di vista emotivo. Però la prima ondata è finita e pensavamo in bene, ricordo ancora quando con la seconda ondata il professore Torti mi ha chiamato per tornare in Covid ed io sono scoppiata in lacrime dicendo che volevo lasciare tutto. Ho rivissuto tutto e sapevo a cosa andavo incontro”.

Generico marzo 2022

Intensiva Covid al Policlinico, Longhini: “Due anni di stress che ci ha segnato”

L’emozione nel ricordare la lotta contro il Covid è visibile sul volto del professore Federico Longhini, Direttore di Anestesia e Rianimazione del Policlinico Mater Domini. Sono tante le persone che lui e i suoi ragazzi, lui stesso è una giovane guida, hanno accompagnato nella solitudine fino all’ultimo istante di vita sono stati tanti. La pandemia ha messo a dura prova tutto. Giovani medici appena specializzati, medici con esperienza, ma anche tutto un sistema sanitario che non ha mai vissuto nulla di tutto ciò.

“È stata una grande sfida – dice il professore – sia per la Calabria che per l’Italia dove sono emerse le debolezze di un sistema sanitario nazionale che è stato negli anni vittima di tagli, perché è un sistema pubblico, quindi c’è un accesso alle cure gratuite, questo ovviamente ha dei costi enormi sui bilanci di una nazione e di una regione e le difficoltà economiche nel susseguirsi del tempo è ovvio che uno taglia dove si spende di più. Questi tagli irrazionali fatti nei decenni hanno portato all’emergere di una crisi in Italia in un momento di maxi emergenza quando potevamo dare 10 ma era richiesto 50”.

Non è stato facile l’approccio ai pazienti e al Covid perché era qualcosa di nuovo. “Avevamo all’inizio una grande paura nell’affrontare questo virus – racconta Longhini – perché non si sapeva nulla. Paure sia nella sicurezza del paziente che verso gli operatori sanitari, perché anche se in Calabria c’erano pochi casi di contagio al Nord Itali si vedevano numeri molto alti e alcuni hanno anche perso la vita. Questo faceva molta paura. Poi abbiamo iniziato a prendere le misure. Abbiamo visto che le vestizioni che si attuavano, almeno qui da noi, erano sicure la presenza di percorsi separati che abbiamo subito creato qui al policlinico sono stati efficaci”.

La paura e i lockdown hanno reso il Covid anche una crisi socioeconomica e sociopsicologica. “Cosa che avevo previsto – spiega Longhini –. tutto questo ha portato ad una distruzione della capacità delle persone stesse a relazionarsi con gli altri. Questo ha portato danni non solo psicologici alla popolazione e ai pazienti che sono in isolamento nei reparti, dove i parenti non possono accedere, ma anche agli operatori sanitari che hanno fatto degli enormi sacrifici. Si sono isolati dalla famiglia, non hanno visto figli, mogli, mariti per mesi per paura di portare questo maledetto virus a casa. È stato molto difficile soprattutto inizialmente, poi avendo più contezza del Sars-Cov2 queste paure sono calate e la vita è diventata un po’ meno anomala”.

Raccontare la Sanità del Covid è un po’ come prendere un pezzo della propria vita e sradicarlo da tutto il resto. “È stato come rincorrere le mancanze che c’erano. Grazie allo stanziamento di fondi e all’impegno di un po’ di tante figure, le direzioni dei vari ospedali, per quanto riguarda noi grazie al management aziendale, abbiamo visto la crescita progressiva della possibilità di accogliere i pazienti”. Si è passati in terapia intensiva da 6 posti letto Covid, che si aggiungevano ai 9 già previsti e presenti prima divisi tra rianimazione generale e cardiochirugica, 15 in totale. “Quest’anno siamo arrivati ad un totale di 29 posti letto.

C’è stata una crescita progressiva che non è dovuta solo all’aumento dei posti letto, ma si traduce in investimenti in materiali, in tecnologia e assunzione di personale che è stato fondamentale nell’ottica di affrontare l’emergenza che è andato a sanare un po’ l’emergenza del personale che c’era nell’era pre Covid”.

Federico Longhini con la sua equipe
Equipe Longhini

Un personale che con la fine dell’emergenza non si sa se resterà oppure no. “Io mi auguro con tutto il cuore, visto il sangue buttato da queste persone, visto tutti i sacrifici fatti, confido in una lungimiranza da parte delle istituzioni nel poter mantenere questo personale che si è sacrificato per il Covid nell’ottica di mantenere i servizi sanitari oggi offerti, per essere un punto di partenza da cui costruire e migliorare sempre di più. Mantenere questo personale ci consentirà di garantire servizi che prima non c’erano. Non è un punto di arrivo, ma di partenza per poter dare sempre una migliore sanità ai cittadini”.
Una sanità quella calabrese che per Federico Longhini, che non è calabrese, non ha nulla in meno alle altre. “Sono tante le idee per poter portare sempre più avanti questa Sanità calabrese – spiega Longhini – che alle volte viene ingiustamente derisa, e lo dico da non calabrese, e mi fa parecchio male, mentre ha dei grandi professionisti. Le problematiche ci sono anche in altre regioni del nord e l’emergenza del Sars-Cov2 lo ha evidenziato, pensiamo alla Lombardia e non lo dico io, lo dicono tutti. Per questo penso che per migliorare il sistema sanitario calabresi ci siano tanti bei progetti”.

Tutta l’umanità e la sensibilità del medico che è Federico Longhini viene fuori nel racconto della cura dei pazienti e del sostegno morale dei suoi ragazzi che sono di pochi anni più piccoli di lui che deve sostenerli anche nei momenti più duri. “Non è facile. Veder morire un ragazzo di 28 o 30 anni non è bello. Non è bello sentire la notizia di una bimba di due anni che è morta, così come di un bimbo di 10 anni, così come non è bello veder morire un 90enne.

Che abbia un anno, un mese o 100 anni parliamo di persone. Ogni volta che qualcuno muore ci si chiede sempre cosa è successo, facendo un’analisi di quello che si è fatto, ma non per capire gli errori, ma perché penso che un medico non ha mai finito di studiare e imparare. Finisce solo quando o va in pensione e si ritira completamente o muore e finisce la sua missione, perché di quello si tratta. Il morale non è stato facile tirarlo su, per nessuno, per i medici, per gli infermieri e neanche per me (il professore ferma più volte il racconto per la commozione dei ricordi, ndr).

Vedere la delusione del proprio personale che butta veramente il sangue in quelle tute, escono da quella rianimazione che hanno perso un chilo, un chilo e mezzo di acqua di sudore e escono dopo tre, quattro ore e devono cambiarsi completamente perché sono fradici e poi, a volte vogliono parlare e chiedono supporto e ci si chiede cosa rimane. Non è facile perché sono due anni di stress psicologico che ha segnato parecchi di noi”.

Un peso enorme che è quasi impossibile scrollarsi di dosso che ha appesantito psicologicamente tutto il personale sanitario che lavora nel settore Covid.

(Fine 3 continua)