“La stanza di Mattia”, l’effervescente ritorno letterario di Maria Murmura Folino

Vivace serata di letteratura e storia alla presentazione del libro. La poco rappresentata Calabria dell’aristocrazia. Esiste l’accezione “calabrese” di un autore?

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Nella sera in cui centonove anni or sono il Piave mormorava, la signora Maria Murmura Folino planava con placida e longeva eleganza nella Biblioteca De Nobili a ripresentare il denso, intricato e genealogico romanzo edito da Rubettino già nel 1995: “La Stanza di Mattia”.

Dove Mattia, svolgendosi in gran parte la vicenda in Taverna e dintorni, non può che fare riferimento al Preti “Cavalier calabrese”, alle sue glorie passate, a lungo dimenticate e infine giustamente riscoperte nel gioco nietzschiano dell’eterno ritorno. Perché se Mattia fu, e non solo Pascal, di “stanze” – intese come piccoli mondi in sé conchiusi – è ricca la costruzione letteraria e delle arti: basti citare “La Stanza di Jacob” di Virginia Woolf, o anche il morettiano film “La stanza del figlio”.

Tanti accostamenti letterari, che si spera riescano graditi all’autrice – un piccolo omaggio solo lontanamente accostabile al floreale in punta di rose che Franco Cimino le ha porto in conclusione della sua meditata presentazione – sottintendono la ricchezza e la felicità delle intuizioni raccolte nelle duecento pagine del romanzo che ripercorre, attraverso le vicende della nobiliare casata dei de Ribeis di Taverna più di cent’anni di storia d’Italia vista dal lato meridionale della sua unità, da poco prima dell’epopea garibaldina fino al costituirsi della democrazia repubblicana e agli albori di quello che sarà il miracolo economico del secondo dopoguerra.

Generico maggio 2024

In un’ala del nobiliare palazzo delle Due Torri c’è la stanza eponima, così nominata perché affrescata proprio dal più famoso dei Preti pittori, aggancio utile alla puntuale digressione critica e biografica sulla sua opera pittorica e sulla sua avventurosa vita.

Ma di Mattia, nella storia raccontata da Maria Murmura, ce n’è un altro  e poi un altro ancora, rampolli nelle successive generazioni della potente e aristocratica famiglia colta nelle classiche fasi – anche qui, ricorrenti in letteratura, bastino “Il Gattopardo” e “I Buddenbrook” -del massimo splendore, dell’adattamento alle contorsioni della storia e della decadenza, tra le quali si insinua il diuturno incontro-scontro tra miseria e nobiltà con l’irrompere di nuove istanze, nuove ricchezze ma anche antiche perdizioni ed eterni compromessi.

Un quadro storico, insomma, che ha offerto allo storico Salvatore Bullotta occasione di ripercorrere lo spaccato temporale così importante che fa da sfondo alla narrazione, dal tramonto della dinastia borbonica all’avvento dei Savoia, dal regno delle due Sicilie all’unità, dall’Italia liberale al fascismo, alla Repubblica così come oggi è.

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Maria Murmura Folino – prima di diventare Murmura sposando il plurisenatore vibonese Antonino  l’autrice era ed è Folino, appunto, di antica e notabile casata catanzarese – prima di scoprire la vocazione letteraria era diventata apprezzata pianista  diplomata al Conservatorio Santa Cecilia  e perfezionata all’Accademia Chigiana.

Ha voluto rispolverare “La Stanza di Mattia”, in ciò incoraggiata dalla Fondazione Murmura, perché le è parso che la pur notevole produzione letteraria calabrese da cinquant’anni a questa parte si è concentrata sulla narrazione della Calabria contadina, emigrante e popolana, sottacendo che da sempre c’è stata, viva e operante anche la Calabria delle classi più agiate, degli aristocratici e dei ricchi. Murmura Folino ha pensato che fosse giusto ridare a questa Calabria poco considerata dagli autori l’opportunità di essere ri-raccontata.

La gentile ed acuta signora – dicono non dovrebbe dirsi l’età delle signore ma ciò non ci esime da esprimere le più sincere congratulazioni per come supporta la sua – lo dice con argomentazione lucida rispondendo alla curiosità del collega in letteratura Massimo Nisticò.

La domanda legittima e posta d’altra parte nel modo pacato e motivato tipico di chi l’ha posta, e la risposta dell’autrice, hanno dato l’avvio a un improvviso rialzo del tono dell’incontro, propiziato dall’intervento – “di stomaco” per autodefinizione – di Luigi Rafael, artista pittorico catanzarese di buona fama e di costante riproduzione, suoi i visi di politici di tutte le liste omaggiate di clownesco bonbon rosso pomodoro sul naso.

Rafael, che nella capigliatura leonina e nel generale portamento sembra davvero uscire d’emblée dal celebre autoritratto di Mattia Preti, ha contestato la necessità di rinverdire le sorti dell’aristocrazia calabrese e con ciò di magnificarle, perché a suo dire la classe dirigente – in ciò allargando di molto l’ambito delle responsabilità – ha consentito nel tempo la sottovalutazione della cultura e della produzione letteraria, e in genere artistica calabrese.

Ma esiste un unicum calabrese in letteratura? C’è per forza bisogno o necessità di qualificare come “calabrese” l’invenzione letteraria?

La provocazione, sempre di Nisticò, ha da una parte dato l’opportunità a Murmura Folino di riaffermare le antiche radici calabresi di musica e accademia – calabrese di Pitagora il primo sistema di notazione musicale, calabrese di Cassiodoro la prima università moderna – la grande tradizione accademica, musicale e filosofica, dall’altra ha rianimato la verve polemica di Rafael: scandaloso che nelle scuole non si faccia mai cenno a scrittori e artisti di Calabria, e cita Andrea Cefaly, e Mimmo Rotella e, per di più, reclama notizie sulle produzioni scultoree di Francesco Jerace di cui non si ha più traccia.

Insomma, la temperatura è salita di grado, tanto che a stemperare si è prodigato un “rientrante” Alfonso Riccio, rientrante nell’arena del dibattito pubblico dopo lunga assenza. Riccio, dirigente ormai in pensione del fu Assessorato regionale al turismo – non vorremmo errare nella collocazione politica – è stato a lungo esponente della sinistra cattolica, non sappiamo se definire democristiana e cattocomunista, come allora si usava dire.

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Con tipico fare democristiano, in ogni modo, per stemperare l’eccesso di tensione accumulata imprevedibilmente in una serata che si prevedeva serena, ha raccontato della mancata trasferta dei Bronzi di Riace alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984.

Una “barzelletta”, Riccio ha definito l’aneddoto. Ma questa è tutt’altra storia. Intanto, il Piave scorreva ancora placido mentre Maria Murmura Folino procedeva al prolungato e meritato firmacopie.

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