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Il segno del coraggio

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    A cura di Dott.ssa Claudia Ambrosio -Criminologa

    L’etologia (dal greco ethos e logos, disciplina che studia l’espressione comportamentale degli animali nel loro ambiente) ha da sempre fornito preziosi contributi alle scienze antropologiche, sociologiche e criminologiche nel descrivere il modus operandi di alcuni criminali attraverso l’assimilazione con le modalità di condotta delle specie animali.

    Ecco, allora, che Konrad Lorenz, considerato padre fondatore della disciplina, ha aiutato a spiegare le dinamiche di “mobbing” ovvero di accerchiamento/aggressione (to mob vuol dire proprio accerchiare) perpetrato da stormi di uccelli in danno di elementi deboli per spiegare la persecuzione condotta negli ambienti di lavoro o comunque gerarchicamente ordinati.

     Proseguendo ci si riferisce al termine “branco” per circoscrivere le condotte violente agite da un gruppo di persone in danno di uno o più soggetti, la cui violenza e aggressività rende assimilabile le dinamiche lesive a quelle tenute dai branchi di belve feroci.

    Nel branco infatti, il fisiologico concetto di “gruppo” si colora di un’accezione negativa quando esso incomincia a chiudersi, ad escludere, quando esige regole severe per entrarvi a farne parte e soprattutto, quando delinque. L’unione fa la forza il gruppo può incominciare a sentirsi potente, diventa violento, abusa del proprio potere, e oltrepassa i limiti, prevaricando i più deboli.

    Il leader o i componenti più carismatici decidono le scelte di un gruppo, gli altri li seguono: il senso di appartenenza, la condivisione di idee, la provocazione, lo sprezzo per le regole, il senso di trasgressione, poi, fanno il resto.

    Ultimamente si è fatto rifermento ai c.d. “leoni da tastiera” per delineare la condotta degli haters ovvero degli odiatori, vale a dire quei soggetti che sono dediti alla denigrazione e persecuzione on line, spesso via social network, salvo poi rimangiarsi tutto se posti difronte alle vittime delle loro stesse maldicenze.

    Di recente, infine, il richiamo al mondo animale ha assunto un ulteriore aspetto poiché non solo definisce alcune dinamiche comportamentali, come si è avuto modo di richiamare in precedenza, ma investe o forse dovremmo dire “veste” letteralmente il corpo degli autori dei comportamenti che proprio da tali belve sono ispirati.

    In altre parole è sempre più diffusa la tendenza umana ad esteriorizzare l’appartenenza “fisica” al genere animale prescelto o, per meglio dire, alle caratteristiche del genere animale prescelto tatuando la fiera sul proprio corpo.

    Con un modus agendi che avrebbe compiaciuto i seguaci della fisiognomica lombrosiana, ecco un proliferare di leoni, tigri, pantere, lupi e quanto di più virile nella natura possa esistere su toraci, braccia, gambe e così via degli “alfa” dei branchi di uomini.

    Naturalmente lungi dal criminalizzare ogni forma di personalizzazione del proprio corpo e fermamente apprezzando una delle più belle e antiche forme di arte che il genere umano conosca, quella del tatuaggio, appunto,  l’osservazione criminologica, viceversa ricade su altri aspetti: in primis sulla scelta della fiera raffigurata: si è proprio sicuri, ad esempio, di aver incarnato correttamente le caratteristiche dell’animale prescelto? si è certi che un leone avrebbe aggredito una vittima con quelle modalità o per le medesime ragioni? Inoltre si è davvero certi che farsi rappresentare sulla pelle stereotipi di forza, rispetto e coraggio sia di per sé sufficiente a diventare forti, degni di rispetto e coraggiosi?

    Inoltre in tanti casi l’esame dell’agito, il modus operandi, la ratio e il contegno tenuto prima, durante e dopo la dinamica criminosa della “belva uomo” più che ad un leone o ad una pantera evoca viceversa altre fiere, nell’immaginario collettivo meno nobili, quali lo sciacallo, la iena, l’avvoltoio e così via.

    I modelli spesso offerti dalla nostra società, specie ai più giovani, sono da rivedere criticamente poiché espressione di una subcultura che tende a enfatizzare la prepotenza e l’arroganza spacciandola per forza e coraggio.

    Si porta a credere che il male sia più affascinante del bene, che la persona aggressiva sia più forte e sarà più rispettata in società di quella più educata e questo alle volte è il messaggio che arriva ai ragazzi che idealizzano tali errati stereotipi: l’aspetto aggressivo o da “duri” è, alle volte, solo una conseguenza estetica di tale deriva culturale o subculturale.

    Utile potrebbe apparire tra l’altro la riflessione che i veri eroi, esempi di coraggio e di forza, spesso pagato con il prezzo della vita stessa, manifestano tali caratteristiche nella vita di tutti i giorni scegliendo di viverla con correttezza, lealtà, onestà, perseguendo una strada che non sempre è la più facile ma che di certo è quella più integra.

    Il coraggio andrebbe, allora, tatuato nel cuore e non (o non solo) sulla pelle: i giudici Falcone e Borsellino, Willy Monteiro, il giovane di origine capoverdiana ucciso nel corso di una rissa, ad esempio, non avevano nessun leone tatuato sulla pelle, in loro il leone era scolpito nel cuore.

     

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