Lo Squadrone, storia di carabinieri in mimetica a caccia di anime nere

Il docufilm trasmesso dai Rai 2 ha sbattuto in faccia agli italiani una realtà agghiacciante ma tristemente vera di una terra tramutatasi nella Colombia dell'Europa meridionale

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    di Danilo Colacino

    La Calabria: una terra bellissima ma disgraziata, che oggi è una sorta di Colombia dell’Europa meridionale. Sì, perché nella regione dominata nella parte Sud dal massiccio montuoso dell’Aspromonte in alcuni territori si è creata una vera e propria economia di sussistenza – capace di alimentare 8 famiglie su 10 – basata sulla produzione di marijuana con l’input e la copertura della ‘ndrangheta naturalmente (l’antistato che a certe latitudini è riuscito a sostituirsi allo Stato, anche regolando il mercato della droga “fatta in casa”). Una verità agghiacciante, nuda e cruda, sbattuta in faccia a milioni di italiani dagli schermi di Rai 2 nella seconda serata di ieri. Niente fiction, solo realtà. Una triste e cupa realtà. E a raccontarla non sono stati attori che recitavano copioni adattati a esigenze di scena o di narrazione televisiva, bensì i componenti dello Squadrone Eliporto Carabinieri Cacciatori di Calabria da cui ha preso il titolo il documentario trasmesso appunto sul secondo canale della Tv pubblica nella giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Ecco allora che a essere protagonista è stato uno dei reparti scelti dell’Arma, costituito nel ‘91 per combattere la piaga dei sequestri di persona: un reato orribile e disumano servito a finanziare una ‘ndrangheta in cui era da tempo in atto un’epocale mutazione genetica da mafia agro-pastorale a mafia imprenditrice e affaristica. Un’organizzazione malavitosa che aveva capito come scalare il vertice della criminalità planetaria grazie alla montagna di soldi guadagnati attraverso ricchi proventi illeciti e agli investimenti miliardari non certo condotti da killer in coppola e lupara bensì da un esercito di broker e colletti bianchi. Le stesse “prigioni naturali” in cui venivano nascosti i sequestrati – afferenti al triangolo Natile di Careri, Platì e San Luca – sono dunque diventate un fortino in cui allestire piantagioni di cannabis. Un salto di qualità nell’ottica criminale, considerato che il commercio della droga (leggera e pesante) rendeva molto più dei sequestri e faceva assai meno “sgrusciu”, non attirando i media, i controlli a tappeto delle forze dell’ordine e soprattutto la riprovazione della gente. Fari puntati che la ‘ndrangheta ha saputo spegnere a differenza di una Cosa Nostra dominata dalla strategia stragista di Totò Riina. La politica dell’inabissamento ha dunque fruttato alle ‘ndrine un rafforzamento e una ramificazione mondiali.

    Il documentario. Nient’altro che il racconto di uomini in divisa a caccia di anime nere. Militari in tuta mimetica, impegnati in un’autentica guerra di trincea che si può vincere solo con la tattica bellica del boots on the ground, letteralmente stivali a terra. A poco infatti servono elicotteri al di sopra di una boscaglia fitta e spesso impenetrabile, se non la si viola dall’interno con specialisti che rischiano tutto pur di stanare i malviventi. Manovali dell’onorata società o autentiche primule rosse. Già quei latitanti (o superlatitanti) che godono di immenso potere, sovente nascosti nei “paesi sotto i paesi”: la quasi inestricabile rete di collegamenti sotterranei – tra cunicoli e alloggi nascosti – come raccontato anni fa dal noto accademico britannico John Dickie per History Channel di Sky. Rifugi celati da pavimenti basculanti o scale che si muovono, progettati da geniali ingegneri (purtroppo!) pagati a peso d’oro dai boss. Pochissimi, però, i mammasantissima a cui tutto questo basta per restare a lungo uccel di bosco, dal momento che a dar loro la caccia ci sono i vari Mimmo (voce narrante del docufilm), Massimo, Michele, Alessandro, Salvatore, Stefano e così via di Falco 21, 22, 25, pronti a lasciare famiglie e vita normale per passare mattinate al sole cocente o notti all’addiaccio pur di metterli in gabbia. “Eroi senza volto” che per assicurare alla Giustizia i capiclan datisi alla macchia – o semplicemente per arrestare i coltivatori delle piantagioni di marijuana – hanno imparato perfino a evitare il cosiddetto trappolamento, una “matassa” di arbusti posti dagli sgherri dei Narcos locali come segnale del passaggio di qualche estraneo, o a intuire in quale recondito anfratto di una casa possa nascondersi un capobastone in clandestinità. Doti affinate con l’esperienza e il duro addestramento perfezionato sul campo.

    Il Monito. Guardare scene come queste può e deve servire soprattutto ai giovani, perché come dice un carabiniere in una ripresa: difficile spiegare a un ragazzino del Nord che solo fumandosi una canna alimenta un sistema perverso a cui si devono anche danni ambientali causati alla terra o ingente spreco di acqua indispensabile a coltivazioni del genere. Un sistema nefasto che – spiega sempre il militare in un altro spezzone del docufilm – ha invaso le coscienze.

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